«Quel che ci tranquillizza… è infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita», dice Musil. Il filo è il caos fatto ordine, è il groviglio che trova struttura, è la linea che esce dal labirinto. Filare, pensare, scrivere: tutte azioni che sgorgano da questa necessità primordiale di imprimere una forma, una direzione, un senso. Già la Bibbia indicava, accanto al bisogno del cibo, quello di avere una «seconda pelle» come protezione. Filava Eva, tesseva Pelenope, cuciva e lavorava a maglia Maria. Dal filo di Arianna alla tela di Aracne, dalla corda di Ananke alle abilità tessili di Atena, il volume segue il farsi metaforico del filo, del tessuto e dell’intreccio, per approdare al contenuto simbolico del vestire e dello spogliare, che evocano l’interno e l’esterno del corpo, l’ambito morale e quello materiale, sofisticazione e virtù, menzogna e verità. Un percorso, questo, che ci porta direttamente alla metafora della rete internet, odierna «tessitura» che comprime il tempo e dilata lo spazio, e tradisce la profonda aspirazione contemporanea, inebriata di immanenza, a non accettare né prima e dopo, né inizio e fine.
L’instancabile correre avanti e indietro della spoletta nel telaio, dell’aratro nel campo, della mano sul foglio, del rullo della macchina da scrivere, delle lettere che appaiono sullo schermo del computer, tutti questi movimenti e gesti evocano l’emergere della composizione testuale dall’intreccio dei solchi e delle righe. È questa la dimensione di chi si trova alle prese con processi creativi culturali. Ma proprio chi fa «cultura» non dovrebbe dimenticare la triplice dimensione di questo termine, che ha a che fare, nella sua etimologia latina, con la cultura o coltivazione dei campi e col culto della divinità, oltre che naturalmente con la cura dei prodotti dell’intelletto.
Non lo dimenticava probabilmente il grande narratore ottocentesco inglese Charles Dickens, autore di trame (in inglese plots) indimenticabili. Nella prefazione a Little Dorrit, l’autore per es. spiega di aver lavorato a quest’opera per parecchie ore al giorno durante due anni e di averne retto e lavorato a lungo i vari fili (ist various threads); solo ora però che l’opera è finita, il lettore può contemplarne nel suo insieme il modello concluso. Dickens riprende la metafora tessile in meniera più estesa ed esplicita nel postscriptum al romanzo Our Mutual Friend. Qui l’autore vede proprio se stesso nell’atto di comporre le sue storie seduto al telaio narrativo, mentre collega i fili più fini nel modello complessivo, definendosi: «il tessitore di storie al telaio» (the story-weaver at his loom).
Un testo che è un colorato ventaglio, capace di tenere assieme miti, riflessioni filosofiche, cure domestiche e teorie infinite di ragazze “con l’orecchino di perla” che hanno silenziosamente attraversato i secoli, lasciando come eredità un filo lunghissimo, tenue e tenace come quello di Arianna. Lo stesso che usa la Rigotti per regalarmi un originale saggio filosofico che sa farsi contaminare dalla bellezza di altre discipline. Da avere, anzi…da custodire.