Giuseppe Maccauro

Giuseppe Maccauro insegna Storia della filosofia all’Università “Giustino Fortunato” di Benevento. Ha studiato a Napoli e all’école des Hautes études en Sciences Sociales di Parigi, dove è stato dottorando invitato. Le sue ricerche vertono sulla storia della filosofia italiana ed europea del Novecento, con particolare riguardo agli intrecci fra pensiero filosofico e scienze umane. Ad Ernesto De Martino ha dedicato numerosi articoli pubblicati su riviste scientifiche italiane e internazionali.

Malato sin da bambino di epilessia, De Martino sembra affascinato e spaventato, allo stesso tempo, dalle esperienze critiche di depersonalizzazione e derealizzazione, che gli attacchi del suo male dovevano in un certo senso procurargli. Siamo forse nel torto se, prendendo alla lettera queste parole, guardiamo alla sua produzione come ad un tentativo di ricondurre a chiarezza, quasi a volerli padroneggiare, alcuni degli aspetti più oscuri ed angosciosi della propria personalità? E non fece forse, De Martino, di questo dramma personale, il paradigma dell’esperienza umana tutta?

È difficile, per chi consideri l’intreccio fra aspetti personali ed interessi di ricerca nell’itinerario dell’antropologo napoletano, sfuggire alla suggestione del possibile parallelismo fra l’autobiografia demartiniana (per altro rimasta allo stato di bozza) e quella ben più nota scritta da Gian Battista Vico e pubblicata nell’importante edizione critica curata da Fausto Nicolini e Benedetto Croce. Anche quell’opera, infatti, sembra ispirata dal rapporto dialettico fra crisi e riscatti personali che, come in De Martino, sono però anche paradigma di crisi e riscatti collettivi. Un tema, quest’ultimo, che appassiona De Martino sin dagli anni giovanili ed al cui interno vediamo maturare un interesse – lo si legge fra le righe del testo indirizzato a Vittoria De Palma – che va ben al di là di quello scientifico, e ci dice molto della personalità di De Martino, ancorché della sua traiettoria di studioso, tanto da far sembrare la storia delle religioni non l’oggetto principale, ma la cornice nella quale dare sostanza ad un problema di ricerca anteriore e più profondo.

C’è dunque una sorta di leitmotiv che possiamo ascoltare discendendo a ritroso nella vita dello studioso napoletano e che possiamo identificare con la percezione che questi aveva di sé: la percezione di una “anima vichiana”, vittima della malattia, ma dalla malattia resa sensibile ai processi di caduta e rinascita – i ricorsi – di interi mondi storici. Vent’anni prima della missiva alla sua compagna, nel 1935, ad un altro destinatario, in un’altra lettera, De Martino aveva riconosciuto la propria attrazione o, per dir meglio, la propria speciale sensibilità, nell’individuare le forze profonde che dal basso scatenano i grandi cambiamenti. Al suocero, Vittorio Macchioro, De Martino confessava di star «rivivendo le grandi antitesi della nostra civiltà». Dunque una partecipazione spirituale ai fatti che coinvolgono l’Italia e l’Europa e che si delineano sullo sfondo di un’atmosfera cupa, da “fine del mondo”, dalla quale i due interlocutori, nelle lettere, sembrano compiaciuti e spaventati allo stesso tempo. E i toni fatalistici che caratterizzano lo scambio epistolare con Macchioro, sembrano altrettanti richiami alle atmosfere, anche queste apocalittiche e malinconiche, degli scritti d’esordio che il futuro studioso di etnologia, a quel tempo acceso sostenitore del partito fascista e militante nel gruppo napoletano del GUF, pubblica fra il 1929 e il 1934. Scritti largamente ispirati alle letture, e ai problemi, di altri due interpreti del tramonto e della crisi, Nietzsche e Spengler, cui De Martino guarda con piglio critico e non senza qualche ingenuità, ma attraverso i quali già possiamo osservare il delinearsi di un problema vivo e palpitante, che sarà costantemente al centro della riflessione demartiniana fino alla monografia sulle apocalissi culturali e che consiste nel tentativo di definire i motivi che conducono alla consunzione di un mondo culturale.

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