Gianluca Solla insegna Filosofia teoretica presso l’Università di Verona, dove dirige PHILM. Centro di ricerca su filosofia e cinema ed è associato al Centro di ricerca su filosofia e psicanalisi “Tiresia”. Tra i suoi ultimi libri: Memoria dei senzanome. Breve storia dell’infimo e dell’infame (Verona 2013); Buster Keaton. L’invenzione del gesto (Napoli-Salerno) 2016; Il debito assoluto, l’economia della vita (Pisa 2018).
Per Orthotes dirige la collana phi/psy (con Federico Leoni e Riccardo Panattoni).
Lo splendore dei nomi e la scrittura
Uno degli enigmi che la tradizione cabalistica ci consegna sostiene che la Torah, presa nella sua interezza, è il vero Nome di Dio: un unico, grande Nome, lungo quanto tutte le lettere che compongono il testo sacro. Gershom Scholem ha constatato come questa coincidenza tra ordine simbolico della parola e ordine testuale del nome abbia prodotto effetti rilevanti per lo stesso rapporto tra mistica e linguaggio. Da parola che comunica qualcosa, il testo tende a diventare qualcosa che, alla stregua di un Nome, “non comunica altro che se stesso”[1]. La Rivelazione attesta così una sorta di raddoppiamento, una doppia esposizione: se Dio e il suo Nome coincidono e questa coincidenza è quanto il testo della Torah esibisce, d’altra parte il linguaggio non esprime semplicemente qualcosa, ma costituisce il serbatoio che accoglie la forza divina, è anzi lo stesso soffio creatore che ha dato luogo alla nascita del mondo, su cui il Nome di Dio è stato infine apposto come sigillo.
[1] Gershom Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1998, p. 27.