Gianluca Attademo è ricercatore a tempo determinato di Filosofia morale presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e professore di ruolo di Storia e Filosofia nei licei. Tiene corsi di Etica e Bioetica e conduce ricerche intorno ai temi della donazione delle staminali cordonali, della sperimentazione biomedica, del pensiero ebraico tedesco e della didattica della storia e della memoria della Shoah.
Nel 1939 Martin Buber, quattro anni dopo le leggi di Norimberga, mentre le ombre annientatrici di una guerra imminente si stanno inesorabilmente proiettando sull’Europa, traccia un bilancio dell’esperienza ebraico tedesca. Sono riflessioni scritte a Gerusalemme, dove si è rifugiato in via definitiva nel corso del 1938, e si aprono proprio con una riflessione sul Galuth.
Il tratto distintivo più accentuato nella storia del Galuth è la completa insicurezza. […] Ogni condizione in apparenza stabile e durevole porta in sé il germe della disgregazione e della distruzione. Non esiste nessuna funzione, che noi esercitiamo nell’economia e nella cultura di un popolo che sia tanto importante da non potersi rivelare da un giorno all’altro superflua, perfino inutile e sgradevole […] Noi ricadiamo però ogni volta nell’illusione che il valore di tale trattato sia definitivo, un’illusione che certo non si può semplicemente liquidare liquidata semplicemente con il termine dispregiativo “assimilazione”. Accanto all’adattamento esteriore c’è sempre infatti il fenomeno di un autentico, accresciuto legame con la terra e la cultura – una sintesi in sé problematica, e tuttavia esistenziale, che si estende fino alla profondità della nostra esistenza – la cui fine ha il carattere della lacerazione di una connessione organica.
Il testo constata la fine di un’epoca dello spirito umano, “sintesi esistenziale”, durata poco meno di centocinquanta anni (dall’Auflkärung alla Sho’ah – o per usare una periodizzazione alternativa – dalla traduzione della Torah ad opera di Moses Mendelssohn alla Verdeutschung che ha impegnato Franz Rosenzweig e lo stesso Martin Buber). L’incontro «tedesco-ebraico», afferma ancora Buber, oltrepassa per profondità ed intensità qualsiasi altro precedente storico; non è riconducibile al dialogo, solo filosofico, prodotto nella cultura greca-ebraica o alla prossimità tra “popoli imparentati” nella Spagna medievale. L’unicità di questa storia risiede nella sua peculiare fecondità (Fruchtbarkeit):
Poiché la simbiosi dell’essenza tedesca e di quella ebraica, così come io l’ho vissuta nei quattro decenni che ho trascorso in Germania, è stata dal periodo spagnolo la prima e l’unica che ha ricevuto la massima attestazione che la storia può conferire: l’attestazione attraverso la fecondità.