Evelina Praino, dottore di ricerca in filosofia morale, è docente invitato di Teorie dell’argomentazione e Scrittura argomentativa presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma. Autrice di L’individualità ai margini dell’impero neoliberale (2021), oltre all’attività di docenza e di ricerca, si dedica da diversi anni alla consulenza filosofica per individui e organizzazioni. Attualmente si occupa della comunicazione dei risultati della ricerca scientifica presso l’Università Luiss Guido Carli.
Qualunque studioso abbia avuto intenzione di confrontarsi con la funzione nodale che il lemma forma-di-vita ha assunto nella filosofia agambeniana ha originato la sua ricerca a partire dal 1993; in quell’anno, infatti, compare per la prima volta un contributo dal titolo Forme-de-vie, tradotto e incluso poi all’interno di una raccolta dello stesso anno – Politica –e ancora successivamente pubblicato nel 1996, in Mezzi senza fine. Note sulla politica.
Ora, la prima sezione di questo lavoro, dedicata alla sostanziale unitarietà dell’opera agambeniana, manifesta e comprensibile nell’ottica di un’interrogazione primariamente linguistica del mondo, è stata l’occasione per riferirsi agli scritti, composti tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui l’autore riflette sul tema della negatività. A ridosso degli anni Novanta, nella prefazione all’edizione francese di Infanzia e storia, Agamben guarda retrospettivamente gli studi che accompagnarono la stesura del testo del 1977 e di Il linguaggio e la morte del 1982 e avvicina il tema della voce umana a quello dell’etica; se l’opera sulla voce, progettata in quegli anni e mai scritta, avrebbe recato il titolo Etica, ovvero della voce, il registro etico che investe la riflessione linguistico-ontologica è poco dopo confermato, nella misura in cui si legge che «il rango proprio di ogni pensiero si misura secondo il modo in cui esso articola il problema dei limiti del linguaggio».
Per Agamben la costituzione del linguaggio si fonda sulla possibilità di eliminazione della voce, di cui si conserva memoria nella forma di una presupposizione nascosta nell’ordine del dicibile: la negatività del fondamento prelinguistico – la rimozione della voce – ci consente la costruzione di senso all’interno del linguaggio (se, infatti, noi umani intendessimo i nostri meri suoni, non avremmo necessità di articolazione linguistica) e rimane sempre esposta, nella misura in cui costituisce una sfera d’indistinzione tra linguaggio e discorso, in cui il suono rimane aperto alla possibilità di (non) tradursi in significato.