Quale imminenza? Qualcosa di unico è in corso in Europa, in ciò che ancora si chiama Europa, anche se non si sa più bene che cosa si chiami in questo modo. Di fatto, a quale concetto, a quale individuo reale, a quale entità determinata si può, al giorno d’oggi, conferire questo nome? Chi ne traccerà le frontiere?
Riottoso sia all’analogia sia all’anticipazione, quello che si annuncia sembra senza precedenti. Esperienza angosciata dell’imminenza, attraversata da due certezze contraddittorie: il vecchissimo soggetto della identità culturale in genere (prima della guerra si sarebbe forse parlato di identità «spirituale»), il vecchissimo soggetto della identità europea, ha certo la venerabile antichità di un tema esaurito. Ma forse questo «soggetto» conserva un corpo vergine. Il suo nome maschera forse qualcosa che non ha ancora un volto? E noi ci chiediamo nella speranza, con timore e tremore, a che somiglierà quel volto. Somiglierà ancora? E a quello di una qualche persona che crediamo di conoscere, Europa? E quand’anche la dissomiglianza avesse i connotati dell’avvenire, si sottrarrebbe alla mostruosità?
Una nota di Maurizio Ferraris
Che cosa resta dei sogni o almeno delle speranze europeiste che Derrida enunciava in questo saggio? Un saggio di cui, per puro caso, ho potuto osservare la genesi: prima una conferenza breve sull’Europa alla fiera del libro di Torino, nel maggio del 1990, trasformata nel mese di agosto in un lungo saggio, mentre, durante un week end a Nizza, accudiva la madre in coma nella piccola casa di Rue Parmentier.
Derrida si attendeva molto dall’Europa, che sembrava in procinto di diventare un soggetto politico decisivo dopo la caduta del muro, avvenuta l’anno prima, che poneva le basi per la riunificazione di un continente diviso dagli accordi di Yalta. Al tempo stesso, non era così ingenuo da ignorare che il sogno di un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali era stato il progetto politico di Hitler, e che le ultime disparate battaglie del 1945 si erano svolte in un clima cosmopolitico volto a salvare “lo spirito europeo” dall’invasione asiatica (come la definiva Hitler).
Niente, insomma, è sicuro nell’Europa, l’entusiasmo facile sbaglia il tono e le proporzioni, e anzi l’Europa appare come un soggetto che merita di essere decostruito prima di procedere a una effettiva costruzione. Bisogna liberarsi dai fantasmi che hanno identificato questo continente come naturalmente destinato al dominio, nel secoli dell’espansione. E che poi l’hanno descritto come in stato di assedio, stretto fra gli Stati Uniti e la Russia (cui ora vanno aggiunte la Cina, le nuove potenze orientali, l’Africa che preme sui bordi meridionali del Mediterraneo.
A quasi quarant’anni di distanza si possono stilare dei rendiconti e trarre degli insegnamenti? Ovviamente sì. E non sono rassicuranti. Malgrado la grande conquista della moneta unica (che però è stata causa di tanti problemi economici) abbiamo la Brexit, e il frammentarsi delle nazioni in unità più piccole – che ovviamente non sarebbe un male, ma solo a condizione di trovare una solida guida centrale europea, di cui la mancanza è invece più sensibile che mai.
Resta tuttavia che, sotto il profilo culturale, “europeo” vuole oggi dire qualcosa, mentre decenni fa non diceva niente, o quasi, evocando appelli un po’ astratti, che fossero l’ideale del “buon europeo” in Nietzsche o quello dello “spirito europeo” in Husserl. Vuol dire qualcosa che va al di là, in filosofia, della pura riaffermazione delle lingue e delle tradizioni nazionali.
Non si tratta solo di una impressione: da più parti, e nel quadro del crollo del muro filosofico tra analitici e continentali, si sente l’esigenza di uno spazio filosofico europeo. Questa, io credo, è forse una delle massime speranze che l’Europa può coltivare. Quella di tornare a essere uno spazio di cultura, e di quella cultura particolarmente ampia e dialogica che è la filosofia.
Indipendentemente dalle sorti filosofiche di un’Europa – che però, non dimentichiamolo, essendo stata riunita dai documenti e non dal sangue non ha grandi conti da regolare –, indipendentemente dai tempi che questo processo – di riunione o di dissoluzione, non abbiamo strumenti per prevedere, sebbene personalmente io sia per l’unione – credo che la costituzione di uno spazio filosofico europeo costituisca un obiettivo che potrà guidare gli sforzi dei filosofi, e di cui gli scritti raccolti in questo libro vogliono, per così dire, istruire il dossier.