L’opera di Emanuele Severino si è caratterizzata, almeno a partire dalla pubblicazione di Ritornare a Parmenide (1964), per la centralità della tesi dell’eternità di ogni ente in quanto tale: ciò che è, fosse anche la realtà più semplice e quotidiana, non può non essere, ma è destinata a rimanere immancabilmente se stessa. Ciò non significa che non si verifichi il mutamento, ma tale modificazione del contenuto dell’esperienza non è tale da compromettere l’impossibilità che ogni essere non sia. Sviluppando tali tesi centrali, Severino ha approfondito una rigorosa elaborazione filosofica che, se da un lato tende a opporsi alla metafisica classica, incentrata invece sul divenire degli enti e sulla trascendenza dell’Essere, sembra continuare a mantenere alcuni legami con tale tradizione di pensiero, tra cui, ad esempio, il fatto stesso che la totalità dell’essere non possa stare in equazione con la totalità dell’esperienza. Invero molti metafisici classici si sono mobilitati nel tentativo di rispondere alle tesi severiniane sottolineando, in molti casi, le divergenze e le incompatibilità, piuttosto che concentrarsi nell’individuazione dei persistenti tratti in comune tra queste due linee di pensiero. Sembra invece che il rapporto intercorrente tra il filosofo bresciano e la metafisica classica, presenti una posizione più complessa e stratificata, non sempre tenuta in debita considerazione.
L’esordio filosofico di Emanuele Severino avviene alla fine degli anni Quaranta, quando il giovane filosofo è impegnato a fondo nell’elaborazione di una tesi di laurea particolarmente ardita (discussa nel 1950 all’Università di Pavia), dal titolo Heidegger e la metafisica. In questo lavoro egli intende analizzare la filosofia di Martin Heidegger, in particolare la sua opera maggiore Essere e Tempo, insieme ad altre opere degli anni successivi, perché ritiene che sia possibile mettere a frutto alcuni aspetti della filosofia heideggeriana al fine di progredire nel progetto di rigorizzazione della metafisica classica. La tesi sarà pubblicata nel 1950 e costituisce a tutt’oggi un interessante documento il quale oltre che costituire un’originale interpretazione della filosofia heideggeriana, permette anche di mettere in luce l’ambiente nel quale si mosse il giovane Severino, le tematiche sulle quali egli era più impegnato, ma anche il metodo e le finalità che orientavano la sua ricerca. Severino quindi si inserisce, seppure in modo originale, nel progetto di rigorizzazione della metafisica nel quale era già impegnato da anni il suo relatore e maestro Gustavo Bontadini.
Tra gli elementi di continuità tra il “primo” Severino e la metafisica classica si può quindi rilevare in prima istanza la condivisione dell’obiettivo di fondo della sua riflessione filosofica giovanile, alla quale egli dedicherà anche altri importanti lavori, tra i quali va menzionata quella che egli stesso ancora oggi considera la sua opera fondamentale, ovvero La struttura originaria.
Un ulteriore e non meno importante tratto in comune con il magistero bontadiniano è costituito dal fatto che quel tentativo di rigorizzazione è compiuto avvalendosi dell’interpretazione del contributo teoretico di alcuni tra i maggiori esponenti della filosofia contemporanea: Heidegger si era assestato, dopo la giovanile adesione al cattolicesimo, in una posizione che per il momento potremmo definire “problematicistica”, relativamente al tema della trascendenza e nel quale era pertanto a prima vista azzardato rinvenire degli elementi che potessero far pensare ad un suo “utilizzo” in vista dello scopo prefissato. In questo caso, la continuità con Bontadini consiste nel fatto che anche quest’ultimo aveva inteso raggiungere l’obiettivo sopra indicato avvalendosi (tra l’altro) di un importante esponente della filosofia contemporanea, Giovanni Gentile, un filosofo appartenente cioè alla scuola idealista hegeliana. Gentile era perciò uno dei maggiori esponenti di quella che si può definire “metafisica dell’immanenza”, per la quale cioè la totalità dell’essere coincide con la totalità dell’esperienza, e che nega l’esistenza di una qualsiasi forma di trascendenza, cioè che ci sia “altro” oltre l’esperienza.