Cosa rimane del concetto di emancipazione così com’è stato formulato sin dall’Illuminismo in seguito ai cambiamenti negli assetti mondiali avvenuti alla fine del XX secolo? Ernesto Laclau risponde a questa domanda con una penetrante analisi sul tramonto delle ideologie totalizzanti, e sulle opportunità aperte dalla conseguente esperienza del decentramento. Eppure tramonto non significa rottura con il passato, bensì apertura a una sfida, quella di rimodulare le classiche categorie della teoria politica moderna, come quella, appunto, di “emancipazione”. L’originale riflessione di Laclau sui “significanti vuoti” e sull’articolazione tra le classiche coppie concettuali “contingenza/necessità”, “universalismo/particolarismo”, ci prospetta nuove possibilità nel pensiero e nella prassi politica, come quella del progetto di una “democrazia radicale”. Venire a patti con la nostra finitudine è la parola d’ordine della post-modernità, il segno dei nostri tempi è la fine del sogno di una società totalmente riconciliata con se stessa: ma questo, lungi dal rappresentare una prospettiva paralizzante, crea per la prima volta la possibilità di una concezione radicalmente politica della società.
Oggi si fa un gran parlare di identità sociali, etniche, nazionali e politiche. Alla “morte del soggetto”, fieramente proclamata urbi et orbi non molto tempo fa, è seguito un nuovo e diffuso interesse per le molteplici identità che emergono e proliferano nel nostro mondo contemporaneo. Questi due movimenti non sono, tuttavia, in un contrasto così completo e drammatico come saremmo tentati di credere a prima vista. Forse la morte del Soggetto (con la “S” maiuscola) è stata il requisito indispensabile per questo rinnovato interesse per la questione della soggettività. È forse la stessa impossibilità di attribuire ancora a un centro trascendentale le espressioni concrete e finite di una soggettività multiforme a fare in modo che la nostra attenzione si concentri sulla molteplicità stessa. Le azioni fondatrici degli anni Sessanta sono ancora presenti, e rendono possibili le esplorazioni politiche e teoretiche in cui siamo oggi impegnati.
Se, tuttavia, c’è stato questo divario temporale tra ciò che era diventato teoreticamente pensabile e ciò che è stato realmente ottenuto, è perché una seconda e più sottile tentazione ha ossessionato l’immaginario intellettuale della Sinistra per un po’ di tempo: quella di rimpiazzare il soggetto trascendentale con il suo altro simmetrico, di reinscrivere le molteplici forme delle soggettività allo stato brado in una totalità oggettiva. Da ciò è derivato un concetto che ha avuto una grande fortuna nella nostra preistoria immediata: quello di “posizioni del soggetto”. Ma questo non era, chiaramente, un reale superamento della problematica della soggettività trascendente (qualcosa che ci perseguita come un’assenza è, in effetti, molto presente). “La storia è un processo senza soggetto”. Forse. Ma come lo sappiamo? La possibilità di tale proposizione non richiede già ciò che si stava cercando di evitare? Se la storia come totalità è un possibile oggetto di esperienza e di discorso, chi potrebbe essere il soggetto di tale esperienza ma allo stesso tempo il soggetto di una conoscenza assoluta? Ora, se proviamo a evitare questa trappola, e a negare il terreno che renderebbe la proposizione fornita di senso, ciò che diventa problematica è la stessa nozione di “posizione del soggetto”.