Economia circolare:
la natura come modello d’impresa
Pochi giorni fa, al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, il presidente francese Emmanuel Macron replicava con fermezza alla richiesta dell’Amministrazione Trump di “rinegoziare” i termini dell’Accordo di Parigi sul clima, firmato solo due anni fa dalla comunità internazionale al gran completo. “Nous ne reculerons pas” – non un passo indietro. Tutto bene, quindi? La sfida climatica ha finalmente trovato il suo leader carismatico? Purtroppo no. Il negazionismo iconoclasta che regna alla Casa Bianca ha infatti provocato un curioso riallineamento politico a difesa dello scenario post-Kyoto, senza se e senza ma: una specie di riflesso incondizionato. Comprensibile, certo; che rischia tuttavia di confondere le acque laddove invece servirebbe chiarezza. Non è davvero il caso di dubitare che il feticismo fossile di Trump sia una sciagura; ciò tuttavia non esime dal riconoscere l’Accordo di Parigi per quello che è: un innegabile successo diplomatico (196 Paesi firmatari), dotato di obiettivi ambiziosi (incremento massimo di 2 gradi centigradi al 2100, con esplicita volontà di abbassare l’asticella a 1,5°), eppure azzoppato in partenza da impegni insufficienti (la somma dei contributi nazionali dei singoli Stati eccede largamente anche l’obiettivo minimo dei 2°) e da una strumentazione inadeguata alla radicalità degli scopi.
“La sfida climatica ha finalmente trovato il suo leader carismatico?”
In particolare, è l’inquadramento storico-concettuale del riscaldamento globale a fare problema: da Kyoto in poi le Nazioni Unite l’hanno concepito come un fallimento storico del mercato – incapace di prendere in carico le cosiddette esternalità negative, cioè i danni ambientali dei processi industriali – la cui unica soluzione sta però in una nuova, massiccia ondata di “mercatizzazione”. È come se a un paziente venisse prescritta una terapia a base di dosi maggiorate dell’agente patogeno riconosciuto come causa diretta della malattia: il mercato, infatti, agisce nei confronti del cambiamento climatico nel doppio, ambiguo ruolo di carnefice – in quanto colpevole di incuria teorica e pratica – e di redentore – in quanto finalmente capace di includerlo correttamente nel sistema dei prezzi.
E mentre la crisi non cessa di peggiorare, il ministro Gian Luca Galletti in apertura del G7 Ambiente di Bologna ci racconta nuovamente che la green economy saprà tenere assieme senza frizioni aumento dei profitti e preservazione ecologica: “Oggi le aziende sono più avanti dei governi in alcuni casi: hanno capito molto prima che nell’economia circolare c’è il futuro e stanno andando indipendentemente in quella direzione”. Che cos’è l’economia circolare? Si tratta di un modello di impresa basato sulla bio-imitazione, la cui diagnosi recita come segue: dati gli insostenibili livelli di inquinamento e consumo di risorse non rinnovabili, il sistema industriale è destinato dapprima all’insostenibilità economica (aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime) e quindi, inesorabilmente, al collasso. Questo accade perché tale sistema, nella sua artificialità, si è svincolato dalla complessa rete degli equilibri ambientali. La prognosi bio-mimetica è conseguente: tale incuria potrebbe risolversi concependo i sistemi produttivi come sistemi viventi, cioè facendo in modo che i primi “imitino” i secondi e si liberino in tal modo del concetto stesso di “rifiuto” che, com’è noto, non si dà in natura.
“La natura lo sa… non bisogna fare altro che imitarne procedure e processi”
In astratto, gli argomenti addotti non mancano di una certa ragionevolezza che pare renderli in qualche modo indiscutibili: “nature knows better”, direbbero gli americani, “la natura lo sa”, quindi non bisogna far altro che imitarne procedure e processi per “rientrare in essa”, per re-integrare il regno della produzione antropica all’interno di quello, più vasto, del vivente. Tutto facile, no? Per niente: in effetti le cose non stanno esattamente così. A quali condizioni, infatti, è possibile sostenere che i cicli naturali funzionino “meglio” di quelli antropico-industriali? A condizione di poterne comparare le peformance. Occorre cioè trasformare la natura da base materiale della riproduzione del vivente a fornitrice di servizi biologici o eco-sistemici dotati di valore monetario: capitale naturale che, come ogni capitale, ha bisogno di buoni manager per dare buoni frutti. In altri termini, affinché sia possibile sostenere la bio-imitazione come programma economico-politico, occorre preliminarmente aver “economizzato” l’ambiente, cioè avervi forzosamente impresso la logica capitalistica. Si entra quindi nel paradosso di proporre un “ritorno alla natura” che non è altro, a conti fatti, che un’immersione nel liquido economicistico in cui già si stava galleggiando. Ben venga dunque la critica a Trump e alla sua strategia energetica reazionaria; ma si aprano pure gli occhi sull’insufficienza dell’Accordo di Parigi e della favola su cui si fonda – che profitto e riduzione delle emissioni remino dalla stessa parte, magari pure a favore di corrente.