L‘acqua che sommerge il mondo nel diluvio (ma anche l’acqua battesimale in cui Gesù si immerge); il deserto vagando nel quale Abramo cerca la sua terra e adora il suo Dio; il pane e il vino che Gesù, dopo averli fatti identici al suo corpo e al suo sangue, offre da mangiare e da bere ai suoi discepoli (ma anche il vino spremuto e bevuto nell’orgia dionisiaca); il marmo in cui i Greci scolpiscono le immagini umane dei lori dei; la terra in cui Antigone seppellisce il fratello bandito perché i cani e gli uccelli non lo divorino. Questi sono solo alcuni dei “luoghi” in cui il logos speculativo, metafisico e ateo del filosofare hegeliano si confronta col nesso tra natura e religione; con quel chiasmo teofisico che la filosofia, fin dalle origini, ha cercato di sciogliere, ma senza il quale nessuna religione può esistere, tantomeno quella del Dio di Israele, che si rivela a Giobbe con la potenza del Leviatano o quella ‒ ad essa indissolubilmente legata ‒ del Figlio di Dio, fatto uomo, crocifisso e risorto.
La morale di Gesù
Lungo tutto il corso dei frammenti francofortesi, la figura di Gesù è giocata in antitesi e in contrapposizion al giudaismo veterotestamentario. Da questo punto di vista l’impostazione teorica è sostanzialmente marcionita: il Dio del Vecchio Testamento e quello del Nuovo, lo Yahveh che si mostra a Mosè nel roveto ardente e il Dio che Gesù chiama padre sono, secondo Hegel, divisi da una frattura incolmabile. Anzi, il secondo non è concepibile se non in opposizione al primo. Se, quindi, il Vecchio e il Nuovo Testamento sono legati, il loro legame è l’antitesi radicale che esiste tra di essi, il fatto che il secondo si costituisce come negazione di tutto ciò che il primo rappresenta. Se Gesù è figlio del suo popolo, lo è nella maniera della più assoluta ribellione ad esso; una ribellione che, non essendo riducibile alla dialettica interna e alle interne contraddizioni del popolo ebraico, non potrà in nessun modo essere riassorbita e conciliata. A differenza dei profeti e dei ribelli che lo hanno preceduto Gesù, infatti, non mette in campo un aspetto del destino ebraico contro l’altro, la sua purezza distruttrice contro le sue rigide determinatezze, ma parte dalla consapevolezza che questi tratti, apparentemente contraddittori, sono le manifestazioni esterne di uno stesso principio costitutivo: la scissione tra uomo e Dio, tra uomo e natura e tra uomo e uomo. È proprio questo principio che Gesù aggredisce e combatte senza posa in nome di una radicale consustanzialità tra la sua essenza umana e l’essenza divina, superando, quindi, la frattura incolmabile che era la ragion d’essere dell’intera esistenza ebraica. Tuttavia, proprio per aver colmato questo abisso egli non può che gettarne uno altrettanto incolmabile fra se stesso e la sua gente. Contrapponendosi alla frattura, egli crea un’altra frattura; riunificando una divisione che si riteneva incolmabile si divide in modo altrettanto incolmabile da questa divisione stessa. Questo è il tremendo paradosso, la terribile dialettica che la vita e il destino di Gesù incarnano.