Deleuze considerava Foucault il più grande filosofo contemporaneo. Alla morte dell’amico, gli dedicherà questo prezioso omaggio postumo, che rappresenta senz’altro la migliore lettura complessiva della sua opera. Si tratta di un testo simpatetico, di un’interpretazione intensiva, problematica e problematizzante, che si snoda attraverso le tre dimensioni del sapere, del potere e dei processi di soggettivazione, e attraverso la quale Deleuze ci ha mostrato cosa significhi veramente pensare con Foucault, andando necessariamente anche oltre di lui. Qui le individualità dei due filosofi si amalgamano, si fondono, e facciamo il nostro ingresso in un territorio in cui non c’è più nessuno che dica “io”. Perché – Deleuze ce lo ha insegnato – «si lavora sempre in più d’uno, anche quando ciò non è visibile». Quello che ne esce, è il sorprendente ritratto di un Foucault «metallico e stridente», che si rivolge direttamente ai problemi della nostra attualità, inventando gli strumenti che ci permettono di interpretarla, di capirla, e forse anche di cambiarla.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di procedere per punti, per quanto sinteticamente, al fine di inquadrare questo denso volumetto nelle sue giuste coordinate. Michel Foucault viene a mancare prematuramente il 25 giugno 1984. Nell’immediatezza di questo tragico evento, e sull’onda emotiva suscitata da esso, Deleuze (che in seguito ne parlerà nei termini di un vero e proprio «bisogno») terrà un importantissimo corso sul suo pensiero all’università di Vincennes-Paris VIII, che si protrarrà dal 22 ottobre 1985 al 27 maggio 1986. Questo corso prelude chiaramente alla pubblicazione del fondamentale volumetto su Foucault che qui presentiamo, nell’estate del 1986, costituendone la messa alla prova o anche il “laboratorio”.
Oggi possiamo confrontare il testo del Foucault con il corso di Deleuze che lo ha ispirato. Le sue lezioni universitarie furono infatti registrate su audiocassetta dai suoi studenti (forse proprio in vista di una revisione da parte dell’autore), tuttavia sono state rese pubbliche solo a partire dal 1999 sul sito Internet della Bibliothèque Nationale de France “Gallica”. Inoltre, dal 2013, l’intero materiale audio è stato trascritto e pubblicato sul sito La voix de Gilles Deleuze, a cura di A. Dufourcq. Perciò al momento in lingua italiana disponiamo dei 2/3 del corso, e cioè delle lezioni sul Sapere e sul Potere. Inutile dire che questa impresa editoriale consente adesso non soltanto una migliore comprensione delle autentiche poste teoriche sottese alla (densa) lettura deleuziana, ma anche (e forse soprattutto) di verificare le interpretazioni che se ne danno, ritrovando una “coerenza” che spesso ha fatto perdere agli studiosi il filo delle sue questioni, la loro stessa “necessità”.
Detto questo, il libro si fa concretamente attraverso la rielaborazione di due articoli che Deleuze aveva precedentemente dedicato a Foucault, che vanno a comporre la prima sezione («Dall’archivio al diagramma»), e di tre studi redatti presumibilmente in concomitanza o al termine delle sue lezioni, che costituiscono la seconda («Topologia: pensare altrimenti»). L’opera è completata da una sesta parte in forma di Annesso dedicata al tema della «morte dell’uomo».
“si lavora sempre in più d’uno, anche quando ciò non è visibile…”
Nelle interviste che fanno seguito alla pubblicazione del Foucault (contenute essenzialmente nella terza sezione della raccolta Pourparler) Deleuze insiste ripetutamente sul tema del doppio, dichiarando esplicitamente di aver inteso delineare una sorta ritratto che fosse un vero e proprio «doppio» di Foucault. E precisa che: «Quello che avevo in comune era necessariamente informe, era una sorta di fondo che mi permetteva di parlare con lui. Per me Foucault continua ad essere il più grande pensatore contemporaneo. Il ritratto di un pensiero si può fare, come si può fare il ritratto di un uomo. Io ho voluto fare un ritratto della sua filosofia. Le linee o i tratti vengono necessariamente da me, ma risultano convincenti solo se il disegno è abitato dal suo fantasma».
E si trattava di un’operazione storico-filosofica che, come è chiaro – e così come era stato fatto precedentemente anche per altri autori (Hume, Nietzsche, Kant, Spinoza, Leibniz…) – poteva riuscire soltanto se questi «ritratti» avessero coinciso con l’originale almeno in certi punti, se fossero stati cioè, in un certo senso assai peculiare, isomorfi al loro modello. Perché «La storia della filosofia non è una disciplina particolarmente riflessiva, assomiglia piuttosto all’arte del ritratto in pittura. Si tratta di ritratti mentali, concettuali. Come in pittura, bisogna farli somiglianti, ma con mezzi dissimili, differenti: la somiglianza deve essere prodotta, e non essere un mezzo di riproduzione (ci si accontenterebbe di ripetere quello che il filosofo ha detto)». Insomma, conclude Deleuze, «La storia della filosofia non deve ridire quello che dice un filosofo, ma dire ciò che egli necessariamente sottintendeva, il non detto che pure è presente in ciò che dice».
Questa maniera assai originale di concepire la storia della filosofia (in quanto disciplina non meramente ricostruttiva, bensì soprattutto ri-produttiva di nuovi concetti) si ispira esplicitamente al celebre «metodo strutturale» elaborato da Martial Gueroult (in particolare per la scelta di privilegiare un punto di vista rigorosamente interno agli autori che studia) e si ripercuote su una non meno originale teoria dell’accento. Così, nelle lezioni dedicate al tema del Potere, rivolgendosi direttamente ai suoi studenti, Deleuze può sottolineare che «È un po’ come quando leggete la filosofia, o a maggior ragione quando leggete la letteratura: è molto simile a quando ascoltate della musica. Letteralmente, non sentite la musica se non ne cogliete il ritmo. O anche qualcosa di più: si è detto spesso che uno non sente Mozart – non lo sente alla lettera – se non è sensibile alla distribuzione degli accenti. Mozart, al limite, è un musicista mediocre. Potreste non percepirlo alla lettera, perché è un musicista dell’accento. Ma è così anche nella letteratura e nella filosofia. Penso a un autore come Leibniz. Prendete una pagina di Leibniz e, leggendola, non potete non domandarvi subito a quale altezza sia. Come una musica. A quale altezza, a quale livello? Poiché un pensiero ha sempre diversi livelli, esso si espone a diversi livelli. Leggere è assegnare questa pagina a questo livello, quella pagina a quel livello».
E in effetti si deve osservare che l’interpretazione deleuziana di Foucault è per molti aspetti spaesante proprio perché Deleuze ha la sublime capacità di dislocare gli accenti, di saper leggere dietro le parole, le proposizioni e le frasi, di esplicitare il «non-detto» dell’autore che interroga, e cioè letteralmente di ricostruirlo, di rifarlo secondo linee e contorni originali. E gli accenti di Deleuze cadono – paradossalmente – su concetti e parole-chiave che lo stesso Foucault ha impiegato assai di rado, in maniera incidentale, e al limite una volta soltanto: sto parlando dei tre fondamentali concetti di «strato», di «diagramma» e di «piega», che scandiscono i tempi forti della ricostruzione/riproduzione deleuziana, fornendo la loro struttura alla seconda parte del libro («Topologia: pensare altrimenti»), la più interessante.
E quali sono i princìpi della lettura deleuziana? Anne Sauvagnargues ha sottolineato che questi principi sono essenzialmente tre: «Principio di esaustività: leggere tutto, tener conto di tutto in un pensiero; principio di storicità: prestare attenzione alle crisi e agli eventi, alle “ore del pensiero”; a cui si aggiunge un principio di sperimentazione: “Non interpretate mai, sperimentate”. Sulla base del primo [continua Sauvagnargues], ciò che conta in un’opera, è tutta l’opera (sistematica). Sulla base del secondo, sono invece i passaggi attraverso cui un pensiero “sarà stato” (dinamica). Secondo il terzo, infine, è proprio nel mezzo del suo divenire che si possono cogliere le scosse e gli strappi del pensiero, così come la sua sistematicità in divenire».
E qui si può vedere, si può toccare con mano, quanto abbia poco (o nessun) senso la domanda o la rivendicazione di una pretesa “fedeltà” (e, al limite, del suo carattere finzionale) rispetto alla lettera dei testi foucaultiani, di questa interpretazione di Deleuze, un’interpretazione decisamente intensiva, simpatetica, che punta a restituire i “divenire” (se così si può dire) più che (oltre che) la “storia” dei concetti di Foucault. Perciò anche un foucaultiano di stretta osservanza come Fréderic Gros ha potuto manifestare tutto il suo stupore nei confronti di questo saggio, un autentico senso di disagio, e confessare un’«antica ripugnanza», dichiarando che questo testo di Deleuze gli è parso «a lungo limitato da una rigidità dogmatica che non riusciva a spezzare l’entusiasmo della frase. Questo libro mi sembrava da un capo all’altro aberrante [continua Gros], cioè lontano, molto lontano dal lavoro effettivo di Foucault, e a volte ho pensato, con un po’ di cattiveria, di dimostrare che Deleuze in quest’opera non aveva fatto che richiamarsi a un essere di finzione». Perché, spiega ancora Gros, qui «Deleuze vuole soprattutto comprendere Foucault, ma comprendere per lui non significa commentare, non significa dire meglio quello che ha detto Foucault, tentare di sbrogliare il fili del suo pensiero. […] Comprendere un autore, per Deleuze, coincide con una certa maniera di rifondarlo». Tenendo presente che «rifondarlo, non significa inchiodarlo a un’intuizione originaria, e nemmeno edificare il suo sistema: significa svelare la metafisica inerente all’opera». E poi – soprattutto – «Comprendere un autore, per Deleuze, significa anche poterlo sognare». Perciò «Deleuze emette delle formule («l’archivio è audio-visivo», «bisogna piegare la linea del fuori per sfuggire alla morte» ecc.) di cui non ci si deve chiedere se vengano da Foucault o da Deleuze: perché sono come le dimensioni di un sogno metafisico a partire da Foucault, e che Deleuze riconduce ed esplora domandandosi soltanto dove lo possa condurre».
E uno dei tratti salienti di questa lettura deleuziana è indubbiamente l’intenzione di inscrivere il pensiero di Foucault nella storia della filosofia (Foucault si era sempre dichiarato vezzosamente un giornalista, un cartografo, uno storico del presente, non un filosofo…) esplicitando le basi metafisiche e soprattutto ontologiche (teoria delle forze) della sua riflessione. Come ha sottolineato L. Daddabbo, «il libro di Deleuze è un saggio di critica applicata a un pensiero la cui dignità filosofica è riconosciuta e affermata fin dall’inizio», perché è chiaro che in questo testo «Deleuze scrive da filosofo su un altro filosofo».
“Comprendere un autore, per Deleuze, coincide con una certa maniera di rifondarlo”
Si tratta di un’operazione filosoficamente legittima? Mi pare proprio di sì, e direi che si tratta forse della maniera migliore di leggere Foucault. O almeno, è la lettura che egli stesso auspicava. Perché Foucault non ha mai preteso dai suoi lettori professioni di fede, e nemmeno giuramenti di fedeltà. Non ha mai richiesto una ripetizione filologicamente ineccepibile delle sue parole, ma reclama al contrario invenzione, creatività. Così, in una celebre conversazione con Deleuze, proprio sui cambiamenti che hanno investito la problematizzazione del rapporto teoria/prassi (anni Settanta), Foucault può affermare che «la teoria non sarà l’espressione, la traduzione o l’applicazione d’una pratica, ma una pratica essa stessa». La teoria è perciò direttamente, immediatamente, prassi. E più avanti potrà attingere a Deleuze l’immagine (wittgensteiniana) della «cassetta degli attrezzi», farla propria, e insistere sul tema dell’uso, sostenendo che «un libro è fatto per servire a degli usi che non sono stati definiti da colui che l’ha scritto. Più ci saranno usi nuovi, possibili, imprevisti, più sarò contento. […] Tutti i miei libri […] sono per così dire delle cassette d’arnesi». E ancora: «Io sono un mercante di strumenti, un facitore di ricette, un suggeritore di obiettivi, un cartografo, un rilevatore di piani, un armaiolo…».
Foucault aveva dunque una concezione fortemente strumentale della pratica filosofica, la quale non doveva in nessun caso essere concepita come fine a se stessa, ma servire praticamente per degli obbiettivi concreti, di lotta, e quanto più possibile diversificati, lontani cioè dalle pretese intenzioni “originarie” dell’autore. Ai suoi uditori al Collège de France esplicitamente diceva: «vi considero interamente liberi di fare, con quello che dico, ciò che volete. Si tratta di piste di ricerca, di idee, di schemi, di linee generali. In altri termini: sono strumenti. Fatene pure quello che volete. Certo che, al limite, mi interessa sapere che cosa farete con quello che dico, ma non mi riguarda. E non mi riguarda, nella misura in cui non spetta a me stabilire le leggi dell’uso che potete farne. Mi interessa, invece, nella misura in cui, in un modo o nell’altro, si ricollegherà a quello che faccio e si innesterà su di esso».
Foucault come «piattaforma girevole» (per riprendere un’immagine habermasiana), che si presta a molteplici usi. Ma con la questione dei possibili «usi» di Foucault facciamo il nostro ingresso, quasi senza accorgercene, nel territorio dei doppi incerti, di un pensiero duale, in cui non c’è più nessuno che dica “io”, perché le individualità dei due pensatori (Foucault/Deleuze) si fondono, pensando allo stesso ritmo, lanciando i dadi all’unisono, e procedono appaiati verso la linea di fuga. Come è stato osservato, con questo incontro si procede nella direzione di un misto «foucaultdeleuze». È una vera e propria “macchina di pensiero”, un dispositivo duale che però è un tutt’uno. E così: «Il lettore si trova di fronte a un nuovo spazio testuale, a un “foucaultdeleuze” in cui si gioca uno dei capitoli principali della filosofia contemporanea». È un “pensare-con”, un autentico esercizio di dis-individuazione (non a caso Deleuze confesserà che il Foucault è proprio un libro che avrebbe desiderato scrivere assieme a Foucault, con Foucault…).
Attorno al 1977, dopo aver attraversato, come ricorda ancora Deleuze, «una crisi totale, politica, di vita, di pensiero», Foucault aveva coniato la felice espressione «travailler-avec» (lavorare-con) per indicare la modalità attraverso cui l’intellettuale avrebbe potuto relazionarsi con le forze progressiste, all’epoca rappresentate dal sindacato (CFDT). Parimenti, con l’incontro Foucault/Deleuze, potremmo dire di trovarci interamente nella dimensione di un “penser-avec”, di un “pensare-con” – Foucault – per procedere, auspicabilmente, anche oltre di lui, verso linee di fuga che ha soltanto indicato.