Al giorno d’oggi? La silhouette di un fantasma, l’ossessione della coscienza democratica. Il fantasma ha diritti e poteri. Ma come contenere delle esigenze contraddittorie? Perché mai la democrazia parlamentare deve tenere a bada ciò che sembra essere la fonte della sua legittimità? Sì, lei fa bene a precisare: al giorno d’oggi, al giorno d’oggi. Quanto al ritmo, al medium e anzitutto alla storia della opinione pubblica, si tratta del problema del giorno.
L’opinione attribuisce alle «opinioni pubbliche» il vizio o la virtù della imprevedibilità: «mobili e mutevoli», «difficili da governare», diceva già la Lettre à d’Alembert. Come i «dadi», sfidano insieme «la forza e la ragione». Di fatto e di diritto, l’opinione può cambiare di giorno in giorno. Letteralmente effimera, non ha statuto perché non è tenuto alla stabilità, nemmeno alla costanza nella instabilità, perché alle volte ha delle «onde lunghe». Una prima ambiguità ha a che fare con questo ritmo: se avesse un luogo proprio (ma proprio qui è il problema), l’opinione pubblica sarebbe il forum di una discussione permanente e trasparente. Si opporrebbe ai poteri non democratici ma anche alla propria rappresentanza politica. Che non le sarà mai adeguata, perché respira, delibera e decide con altri ritmi. Si può anche paventare la tirannia dei movimenti d’opinione. La velocità, il «day by day», anche nella «lunga durata», nuoce talvolta al rigore della discussione, al tempo della «presa di coscienza», con paradossali ritardi della opinione rispetto alle istanze rappresentative. Di modo che, rispetto alla pena di morte, si crede di sapere (ma soprattutto attraverso dei sondaggi!) che le maggioranze non sarebbero al giorno d’oggi le stesse 1. in Parlamento, 2. in una consultazione referendaria, 3. in occasione di «sondaggi d’opinione» o di indagini sociologiche. Discordanze o differenze di ritmo, gli esempi non mancano. Per riconoscere il diritto di voto agli immigrati nelle elezioni locali, la campagna lanciata da «sos Racisme» deve informare e convincere una opinione pubblica che poi sarebbe ascoltata dalla maggioranza parlamentare; ma il presidente della Repubblica, allora candidato, aveva già annunciato la sua «opinione» personale, dato il suo parere sullo stato attuale, cioè sul ritardo dell’opinione e anche del Parlamento, ciò che non è privo di effetti su entrambi. Topologia intricata. Come identificare, qui, l’opinione pubblica? Ha luogo? Dove si fa vedere, e come tale? L’erranza del suo corpo proprio è anche l’ubiquità di uno spetto. Che non è presente in quanto tale in nessuno di questi spazi. Dato che deborda la rappresentazione elettorale, l’opinione pubblica non è, di diritto, né la volontà generale, né la nazione, né l’ideologia, né la somma delle opinioni private analizzate con tecniche sociologiche o attraverso i moderni istituti di sondaggio. Non parla in prima persona, non è né oggetto né soggetto («noi», «si»), la si cita, la si fa parlare, la si ventriloqua («paese reale», «maggioranza silenziosa», «moral majority» di Nixon, «main-stream» di Bush ecc.), però questa «media» detiene un potere di resistere a quei mezzi «atti a dirigere l’opinione pubblica», a quell’«arte di far cambiare», che non hanno, dice ancora Rousseau, «né la ragione, né la virtù, né le leggi».
“Perché mai la democrazia parlamentare deve tenere a bada ciò che sembra essere la fonte della sua legittimità?”
Ora, questo dio di una politologia negativa può dar segni di vita, alla luce del giorno, solo grazie a un qualche medium. Il ritmo quotidiano, che gli è essenziale, presuppone la diffusione capillare di alcunché come un giornale. Questo potere tecnico-economico permette all’opinione di costituirsi e di riconoscersi come opinione pubblica. Benché al giorno d’oggi questa categorie sembrino inadeguate, si suppone che il giornale garantisca un luogo di visibilità pubblica atto a informare, formare, riflettere o esprimere, dunque a rappresentare una opinione pubblica che ci troverebbe lo spazio della sua libertà. La correlazione tra il quotidiano – scritto o audiovisivo – e la storia della opinione pubblica eccede largamente la cosiddetta «stampa d’opinione». Preziosi e pericolosi, sempre più «sofisticati», i sondaggi si aggiornano a un ritmo che non sarà mai quello delle rappresentazioni politiche o sindacali. Ora, quei sondaggi vengono alla luce del giorno sulla stampa, che spesso ne detiene l’iniziativa e il potere. Finalmente si viene a sapere, e il giornale produce la novità della notizia nella misura in cui la riporta, che oggi l’opinione non è più quella che era stata ieri e sin dall’inizio della sua storia.
Perché il fenomeno non è mai stato naturale, cioè universale. Come, del resto, la quotidianità in quanto categoria portante del ritmo sociale. Prima di interrogarsi sulla supposta «realtà» dell’opinione pubblica oggi, come sulla cinematografia della sua silhouette, bisogna ricordare che il fantasma ha una storia: europea, recente e fortemente scandita. Certo, il discorso sull’opinione è vecchio come il mondo: doxa o «opinione» (non è precisamente la stessa cosa) hanno indubbiamente dei corrispettivi nelle culture non occidentali. Ma la storia della opinione pubblica sembra legata proprio al discorso politico dell’Europa. È un artefatto moderno (qui le premesse delle Rivoluzioni americana e francese procurano il riferimento più visibile), anche se un «tempo forte» è stato preparato dalla tradizione di una filosofia politica. Con questo o con altri nomi, non credo che si sia parlato di opinione pubblica, prendendola sul serio, senza il modello della democrazia parlamentare, cioè senza che un apparato legislativo (in Francia: dall’articolo XI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo alla legge del 1881 sulla libertà di stampa) abbia permesso o promesso la formazione, l’espressione e soprattutto la «pubblicazione», per l’appunto, di una simile opinione al di fuori delle rappresentazioni politiche o corporative.
“Un «governo d’opinione» può giocare con l’opinione, inventarsela o invocarla contro le rappresentanze costituite. Ma questo lo si può fare e dire solo in una democrazia perlomeno formale. Una dittatura popolare o un regime totalitario non sono governi d’opinione”
Pur non essendo propriamente elettorale, l’opinione, come dice il nome, è chiamata a pronunciarsi con un giudizio. Non è mai un sapere, ma una valutazione impegnativa, un atto volontario. Ha sempre la forma del «giudizio» (sì o no) che deve esercitare un potere di controllo e di orientamento sulla democrazia parlamentare. Ma, dal punto di vista della decisione propriamente politica, questa potenza ragguardevole resta sempre «in potenza». E dentro a invisibili frontiere. Non ha luogo né dentro né fuori. Si situa fuori della rappresentazione statutaria, ma questo fuori può essere riconosciuto come quello di una opinione pubblica indipendente solo nelle democrazie parlamentari e nelle strutture rappresentative: in vista di un voto possibile e di un intervento dentro o sopra la rappresentanza. Momento paradigmatico: i Cahiers de Doléances. Luogo di un elettorato potenziale, l’opinione pubblica è una assemblea di cittadini chiamati a decidere, attraverso un giudizio, su temi di competenza delle rappresentanze legittime, ma anche su temi che le esorbitano, almeno per il momento, in un ambito che oggi si allarga sempre più rapidamente, così da sollevare seri interrogativi: sull’attuale funzionamento della democrazia liberale, quando non sui suoi principi. Ricordiamoci le manifestazioni a favore della «scuola privata», i «coordinamenti» di studenti o infermieri, i dibattiti sulla «pillola del giorno dopo», sull’aids, sulla tossicomania o sui preservativi, e persino sul film di Scorsese (qui parlo della parola, della dichiarazione o della manifestazione, cioè di un elemento della opinione, e non delle bombe destinate a porvi fine). Ma tutto ciò che non è dell’ordine del giudizio, della decisione, e soprattutto della rappresentazione, sfugge sia alle attuali istituzioni democratiche sia all’opinione pubblica in quanto tale. Questa coppia è coniugata dalla possibilità della valutazione nella forma del giudizio che decide (sì o no) e si produce in una rappresentazione. I sondaggi d’opinione cercano di sottrarsi a questa legge, da una parte debordando i temi elettorali e le decisioni immediatamente politiche, dall’altra moltiplicando le valutazioni sotto forma di percentuali (più o meno) piuttosto che di alternative (sì o no). Ma un discorso concerne l’opinione pubblica come tale solo se anticipa un dibattuto legislativo e se il «più o meno» anticipa un «sì o no». E allora che cosa diventa questa riserva di esperienza, di valutazione e persino di determinazione (i «modi», i «gusti», i «costumi») che non dipende dal giudizio (sì o no) e dalla rappresentazione, in tutti i sensi del termine? Proprio qui si può interrogare l’autorità dell’opinione – non nei suoi contenuti, ma nella sua forma di giudizio preelettorale – così come la distinzione privato/pubblico, il cui rigore sarà sempre minacciato dal linguaggio, in quanto tale e sin dal primissimo segno. Che spazio pubblico – e dunque politico – dare a interrogativi di questo tipo?
Un «governo d’opinione» può giocare con l’opinione, inventarsela o invocarla contro le rappresentanze costituite. Ma questo lo si può fare e dire solo in una democrazia perlomeno formale. Una dittatura popolare o un regime totalitario non sono governi d’opinione (e quello che oggi sta vedendo il giorno in Urss è forse semplicemente una opinione pubblica). I nuovi modi di «tenersi aggiornati», di auscultare il polso dell’opinione a un ritmo quasi giornaliero autorizzano e obbligano un certo potere (per esempio quello di un capo dello Stato o di un governo democratico) a tener conto di una evoluzione prima e al di là della sua espressione in Parlamento, nei partiti e nei sindacati, a scoprire gli spostamenti della maggioranza prima delle elezioni e persino prima di un referendum. Non che l’opinione sia la riserva amorfa di una spontaneità selvaggia che eccederebbe le organizzazioni (partiti, sindacati ecc.). Né passivi né attivi, i recenti «coordinamenti» di studenti o di infermieri non sono stati «manipolati» più di quanto non siano sorti da una spontaneità disorganizzata. Dunque sono necessarie altre categorie per condurre l’analisi – e l’azione politica – di là da questa sommaria alternativa. Lo stesso dicasi dei rapporti con le istituzioni e soprattutto con la stampa: l’opinione pubblica non si esprime, se con questo si intende che esiste in un qualche foto interno prima di manifestarsi in pieno giorno, come tale, nella sua fenomenicità. È fenomenica. Non è prodotta o formata, o persino influenzata o distorta dalla stampa più di quanto non ne sia semplicemente riflessa o rappresentata. Queste interpretazioni ingenue o grossolane si radicano in un potente discorso filosofico. Dar prova di responsabilità non è forse anzitutto cercare di riesaminarle? Compito filosofico e politico, teorico e pratico, compito difficile ma anche pericoloso perché rischia di compromettere lo stesso concetto di rappresentanza, l’«idea delle rappresentanze» che Rousseau diceva «moderna». Ma un democratico non ha forse la responsabilità di pensare gli assiomi o i fondamenti della democrazia? di esaminarne impietosamente le determinazioni storiche, quelle che, nel 1989, possono essere delimitate, e quelle che non possono esserlo?
“Ma un democratico non ha forse la responsabilità di pensare gli assiomi o i fondamenti della democrazia?”
Perché si tratta proprio dell’avvenire della democrazia. La dimensione dello spazio «pubblico» accede indubbiamente alla sua modernità filosofica con i Lumi, con la Rivoluzione francese o americana o con discorsi come quelli di Kant che lega l’Aufklärung – il progresso dei Lumi e del giorno – con la libertà di fare un uso pubblico della ragione in ogni campo (benché la ragione non si riduca all’«opinione», che deve anche criticare). In questa modernità post-rivoluzionaria, la trasformazione tecnico-economica dei media segna un’altra scansione. Sin dalla fine della prima guerra mondiale, soprattutto in Germania, le crisi che la radio poteva introdurre nello spazio tradizionale di una democrazia hanno dato luogo a gravi dibattiti (cfr. La critica della opinione pubblica di Tönnies, nel 1922, o i lavori di Carl Schmitt, la cui influenza è ancora viva, li si citi o no, a destra e a sinistra, in tutte le analisi dello spazio pubblico, per esempio in Habermas. Non è questo il luogo per affrontare la questione, e non dimentichiamoci le ingiunzioni della stampa: non sono solo quantitative, ma impongono dei modelli di leggibilità. Tutti i nodi che discutiamo in questo preciso momento si concentrano in ciò che devo affidare all’ellitticità di un telegramma. Si può parlare seriamente della stampa sulla stampa? Sì e no, di straforo). Quei dibattiti non si sono esauriti: pensate agli effetti immediatamente internazionali della televisione di domani su un’opinione pubblica prima ritenuta anzitutto nazionale. Pensate alle trasformazioni introdotte da una tecnica di sondaggio che può letteralmente accompagnare, o, meglio, produrre l’evento televisivo («L’heure de la vérité»!). Questa tecnica può certo, come la stampa, dare la parola a minoranze prive di rappresentanza istituzionale, correggere errori e ingiustizie; ma questa «democratizzazione», ripetiamolo, non rappresenta mai legittimamente e senza filtri una «opinione pubblica». La «libertà di stampa» è il bene più prezioso di una democrazia, ma, almeno nella misura in cui non si è data legittimità, effettivamente, nelle leggi e nei costumi, alle questioni che abbiamo evocato, questa «libertà» resta da inventare. Ogni giorno. Come minimo. E con lei la democrazia.
Jacques Derrida
[tratto da L’Europa in capo al mondo, Orthotes 2018]