De libero arbitrio

«Poi il Signore Dio disse: ‘Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male’» (Gen 3,22)

«Il Signore disse allora a Caino: ‘[…] Se agisci bene, non dovrai forse tenere alto il tuo volto? Ma, se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo’» (Gen 4,6-7)

Questa narrazione costituisce il primo esempio di libero arbitrio.
Anche Eva si trovava di fronte a una scelta: mordere il frutto colto dall’albero della conoscenza, o rifiutarlo. Tuttavia, Eva scelse senza conoscere, senza essere in grado di distinguere il bene dal male. Poteva solo distinguere ciò che era permesso da ciò che era proibito. Scegliere fra ciò che è permesso e ciò che è proibito non costituisce una libera scelta, dato che si sceglie ciò che è permesso per timore di una sanzione e ciò che è proibito come gesto di curiosità o di ribellione, ma nessuna delle due scelte è basata sulla conoscenza del bene e del male. Facendo ciò, ci si comporta come un bambino innocente. Proprio come ha sostenuto Kierkegaard: l’innocenza è ignoranza.
Caino, al contrario, sapeva distinguere il bene dal male. Avrebbe potuto scegliere il bene, tuttavia soccombette al male. Scegliere il bene sarebbe stata una libera scelta, eppure Caino, sebbene il Signore lo avesse messo in guardia, finì per cedere al desiderio di peccare. Non approfittò, quindi, dell’opportunità di essere il primo uomo a scegliere liberamente. E, in effetti, nella Bibbia nessun uomo, prima di Noè, ha scelto liberamente.
Facendo un grande salto, di diverse migliaia di anni, fino alla filosofia di Immanuel Kant, ci si trova di fronte a una concezione molto simile, supportata questa volta da argomenti filosofici. Nella sua seconda Critica, Kant parla di libero arbitrio, non di libera scelta, attenendosi alla tradizione della teologia e della filosofia cristiana piuttosto che alla semplice storia biblica. Il libero arbitrio è per Kant un’idea trascendentale, non un concetto empirico, ed egli aveva ragione, perché il volere, in quanto facoltà umana empirica, non esiste. Noi vogliamo questo o quello, ci poniamo determinati scopi, cerchiamo i modi per raggiungerli e facciamo del nostro meglio per ottenerli. Quando si osserva che X ha una volontà debole, s’intende che X sogna di raggiungere l’obiettivo, invece di compiere delle vere e proprie azioni, mentre quando si dice che Y ha una volontà forte significa che egli con forza usa coerentemente tutti i mezzi per perseguire il suo obiettivo.
La sostituzione della nozione di «libertà del volere», che è un’idea trascendentale, a quella di «libera scelta», che è un concetto empirico, è problematica e non solo per le connotazioni metafisiche della prima, bensì anche perché la volontà trascendentale non presuppone alcuna scelta. Proseguendo riguardo a Kant: la volontà libera è la manifestazione della libertà trascendentale. La libertà umana consiste nell’obbedienza alla Legge Morale. Non c’è alcuna scelta morale.
Il dibattito su libertà del volere e scelta libera si è protratto per secoli. Per citare solo alcuni di coloro che intervennero in tale dibattito: da giovane, Sant’Agostino scrisse un libro a favore della libera scelta, ma solo per metterlo poi in questione in un secondo tempo. Lutero scrisse un libro sulla servitù della volontà, Leibniz riuscì a integrare con successo i due concetti.
Il problema apparentemente insolubile consisteva, in breve, nel fatto che, poiché ogni cosa ha una causa, anche la volontà o la scelta debbono averne una, e se esse hanno una causa, non possono essere libere. La libertà consiste nell’agire ex nihilo. Solo Dio può essere causa di se stesso e solo Questi può creare dal nulla. Il punto di origine del problema è stato in primo luogo l’identificazione della causa con la causa efficiente. Qualunque cosa esista ha una causa e ciò significa, nel nostro caso, che la volontà o la scelta devono essere determinate da qualcosa, che si tratti di Dio o di pensieri, desideri, istinti e così via. Qui, tuttavia, emerge un vecchio problema. Qualunque cosa sia determinata unicamente da una causa efficiente è contingente – questo afferma Aristotele, e sarebbe difficile contraddirlo. Quindi, se la scelta o la volontà sono determinati da una causa efficiente, ogni scelta è contingente. Kant risolve filosoficamente questo problema con successo. La causa efficiente che necessita [la scelta] è la libertà trascendentale. Non esiste scelta morale.
La soluzione di Kant è filosoficamente molto elegante, ma presuppone lo stretto contrasto metafisico di due mondi: il mondo fenomenico della natura, al quale si applicano le categorie, e il mondo noumenico della libertà. Ma nel nostro universo filosofico post-metafisico, la soluzione kantiana non regge, e si rende necessaria la ricerca di soluzioni alternative.
Prima di addentrarci nella discussione circa le possibili soluzioni filosofiche alternative, esaminiamo la questione a un livello puramente empirico, senza toccare l’insidioso problema del libero arbitrio.
Pensare (cogitare) è un concetto empirico. Noi umani pensiamo ininterrottamente, anche quando stiamo sognando. Il pensiero comprende diverse attività mentali, come il parlare, il comprendere, il percepire, l’immaginare, il ricordare, il riconoscere, l’intuire, il dimostrare, il discutere, il dibattere, il pianificare, e certamente anche lo scegliere. In questo senso, il celebre motto di cartesiano «Cogito ergo sum» è indubitabilmente vero. Un essere umano in stato di morte cerebrale (cioè qualcuno che prima era una persona e che ora ha perso tutte le abilità mentali citate) non è una persona umana, bensì soltanto un vivente, al pari di un vegetale.
I filosofi si riferiscono con nomi precisi a tutte le abilità e attività mentali e, tra queste, anche a diverse capacità razionali come logos, nous, episteme, sophia, phronesis, noesis, gnosis in greco e liberum arbitrium, ratio, intellectus, intuitio in latino.
Gli esseri umani scelgono. Alcuni mammiferi, e certamente gli animali domestici, scelgono – non abbiamo qui lo spazio per spiegare la differenza. Di seguito parlerò solo delle scelte umane. Per prima cosa, tratterò le scelte in generale, senza tenere conto della loro possibile rilevanza etica, per poi soffermarmi sulle scelte morali.
C’è differenza fra preferenze e scelte, benché le preferenze siano in qualche modo scelte. La differenza è temporale. Nel caso della preferenza, io posso scegliere oggi A e domani B, e l’uno non esclude l’altro. Oggi vado in università a piedi, domani in autobus. Le preferenze possono essere «motivate» dalle sole cause efficienti, e sono perciò interamente contingenti. Tuttavia, se un tipo di preferenza diventa costante, essa includerà anche una sorta di causa finale, dato che implica la memoria pragmatica; per esempio, io scelgo questo cibo perché mi piace e voglio sentirne di nuovo il sapore.
Ogni volta che è in gioco la memoria pragmatica, come in tutti i casi di azione abituale, la distinzione fra causa efficiente e causa finale è solitamente assente. Ci laviamo i denti ogni mattina, ripetendo un atto impresso nella nostra memoria. Se qualcuno mi domanda perché lo faccio, cerco di dare una risposta del tipo «mia mamma mi ha detto di farlo», oppure «è per la salute dei miei denti». La prima risposta suggerisce una causa efficiente esterna, la seconda una causa finale di mia preferenza. Quello che è importante è che le scelte abituali, le preferenze ripetute, sono ripetizioni e queste ultime da parte propria presuppongono una precedente conoscenza o esperienza, cioè una memoria pragmatica. Ogni scelta, anche la più semplice, presuppone che la memoria sia in funzione.
Sebbene la maggior parte delle nostre scelte siano scelte quotidiane abituali (ovvero preferenze), se si sollevano questioni rilevanti (of significance) vuol dire che non abbiamo in mente questo tipo di scelte. Di conseguenza, non possiamo evitare di confrontarci con l’argomento dell’autonomia o dell’eteronomia. Possiamo scegliere mezzi e fini per via d’intuizione, o per un’illuminazione improvvisa, altrettanto bene che attraverso una deliberazione cosciente. Tuttavia, anche se uno scopo appare in un baleno alla mia mente, e agisco spontaneamente, io debbo [nondimeno] agire consciamente, usando l’intuizione alla stregua di un segnale stradale.
Lo scopo (obiettivo) della scelta è nel futuro. Anche se siamo sicuri di aver scelto la cosa giusta, il bene desiderato, il fine richiesto, quello promettente, noi non sappiamo se abbiamo scelto i mezzi adeguati per conseguirlo. Così facendo, ci esponiamo a un doppio rischio. Ogni tipo di scelta implica dei rischi e di conseguenza una responsabilità. Quanto sia rilevante il rischio, quanto grave sia la nostra responsabilità, dipende sia dal tipo di scelta sia dalle circostanze dello scegliere, indipendentemente dalla scelta compiuta. Lo cito solo a latere, ma è importante comprendere come la salute mentale richieda l’abilità di sentire il peso, la significanza o non-significanza di una scelta così come l’abilità di prendere decisioni. Nessuno può sostare indefinitamente come l’asino di Buridano.
La metafora usuale di una scelta significativa è l’incrocio tra due, tre o quattro strade. Bisogna sceglierne una per arrivare alla propria destinazione. Non ci sono cartelli stradali o mappe di alcun genere: non ci sono informazioni. Tuttavia, non si può rimanere fermi all’incrocio, non foss’altro che perché non si hanno viveri bastanti per sopravvivervi a lungo. Possiamo rimuginarci sopra razionalmente, giudicando la qualità delle strade, le loro condizioni o altro. Si può ascoltare il proprio inconscio, la sensazione interiore del «sì» o del «no». Si può anche scommettere, mettendo nel cappello fiammiferi o pezzi di carta, lasciando che sia il caso a decidere. Così, la scelta della strada giusta è casuale. Ma è proprio così?
È del tutto accidentale cominciare a rimuginare, o a scommettere, o confidare sul proprio istinto? I bambini non stanno fermi all’incrocio. Chiunque si fermi sull’incrocio ha già una storia. Ha la memoria di scelte precedenti e dei risultati di tali scelte.
Questi possiede una memoria autobiografica. Ritornano luci improvvise di esperienze passate, riappaiono delle immagini. Ogni persona possiede un qualche tipo di conoscenza di se stessa, una sorta di identità soggettiva. Non ci si può domandare, in questo caso, se la conoscenza di sé sia corretta, vera, oppure no. Chi si trova sull’incrocio di cui si è detto è un insieme di memorie autobiografiche. Non esistono due persone, nemmeno due gemelli, con la stessa identità soggettiva. Dunque, la persona al metaforico incrocio sceglierà anche sulla base del proprio carattere, formato e delineato da diversi eventi e specialmente da scelte precedenti, mantenute nella memoria autobiografica. In questo senso, ogni scelta all’immaginario incrocio implica qualche tipo di autonomia, di autodeterminazione, come il tocco finale di un carattere formato dall’identità soggettiva. Ma non soltanto da essa.
La memoria autobiografica che costituisce la nostra identità soggettiva, che imprime il suo timbro su tutte le nostre scelte conseguenti, è formata essa stessa anche dalle immagini del mondo, dalle esperienze nel mondo e con il mondo, dalle sue regole e dai suoi valori, dagli incontri con le persone, con le storie che appartengono al mondo, con una memoria culturale condivisa. Chi sosta all’incrocio metaforico vi sosta con un carattere formato anche dal proprio mondo. Ha memoria non solo delle sue personali esperienze e scelte passate, bensì anche delle decisioni dei propri antenati (probabilmente di uno degli eroi ancestrali) in una situazione simile, delle fiabe che ha sentito, degli avvertimenti di sua madre, delle esperienze degli amici e così via.
Se abbandoniamo il modello astratto della metafora dell’incrocio e ci rivolgiamo alle situazioni di scelte significative nella vita reale, avremo una prospettiva migliore sull’importanza della confluenza di esperienze personali e memoria culturale. Scegliendo fra due professioni o due compiti, fra due partner o fra due continenti, si sceglie, di conseguenza, di avere un futuro diverso, significativamente diverso.
La decisione ha luogo nel presente: si sceglie il futuro nel presente assoluto, ma non indipendentemente dal passato. Nel futuro, che diventerà presente, ci si ricorderà di una scelta essenziale come del proprio passato significativo.

Fino a questo momento, ho evitato di parlare di scelte morali, quelle che si compiono cioè fra ciò che è permesso e ciò che non lo è, fra l’obbedienza (ai valori, alle persone, o alla Legge morale) e la disobbedienza, fra il bene e il male. Eppure la medesima scelta può essere totalmente priva di contenuto morale, oppure includere anche un aspetto morale. Per esempio, posso scegliere una professione perché così hanno deciso i miei genitori, perché è pagata molto bene, perché mi appassiona moltissimo. Nessuna di queste scelte consiste in una scelta fra il bene e il male.
Tralascio qui felici soluzioni di carattere filosofico e suggerisco di trattare delle scelte fra il bene e il male nella vita reale. Assumiamo che la scelta fra il bene e il male sia quella più significativa all’incrocio metaforico. Lì non si può tirare a sorte, non ci si può semplicemente affidare al proprio intuito, non si può scommettere, non si può fare affidamento sulla fortuna e non si può affrontare la situazione semplicemente attraverso la razionalità. Per dirla meglio, nessuna di queste opzioni è aperta allo stesso grado per tutti coloro che devono scegliere.
Un tempo, in comunità omogenee, più piccole, una buona scelta combaciava con tipi di scelte stabilite e considerate buone dalla comunità stessa. Nietzsche indicava questa situazione con l’espressione: «Sittlichkeit der Sitte». Questi scenari sono finiti da tempo e [oggi] la scelta fra il bene e il male comporta difficoltà assai maggiori. Nel mondo di Aristotele le difficoltà erano inferiori, dato che egli poteva ancora enumerare i valori principali della propria città e i modi per praticarli. L’individuo doveva essere all’altezza della situazione, del tempo e del luogo, doveva esprimere un giudizio appropriato per colpire il centro del bersaglio (ovvero per compiere una buona azione). In altre parole, l’autonomia appariva come la strada per trovare la giusta realizzazione dei valori generalmente accettati in una data situazione.

È superfluo dire che, ai nostri tempi, quando non rimangono molti valori generalmente accettati e, in aggiunta, anche quelli generalmente accettati (come il coraggio, la lealtà) vengono interpretati in modi totalmente differenti, distinguere il bene dal male è un compito assai più complicato. La lealtà è dovuta, ma a che cosa o a chi? Agli amici, alle cause, ai compagni, alle istituzioni, alle idee? Essere leali verso qualcuno può implicare essere sleali verso qualcun altro. Coraggio in che cosa, per che cosa? Per gettare bombe sugli autobus, per esprimere le proprie opinioni senza tener conto delle conseguenze, per imbarcarsi su una navicella spaziale? Empatia sì, ma verso chi? Verso i bambini affamati, verso i criminali? E come esprimerla? Lamentando, protestando, aiutando?

Mentre facevo a me stessa queste domande, ho cercato di ribaltarle, o almeno di modificarle. È meglio non domandarsi che cosa sia buono, bensì piuttosto chi sia buono. Chi può definirsi una buona persona. Perché, indipendentemente dalla definizione di bontà, la risposta a questa domanda raramente è cambiata da quando è stata posta. Ma, cosa più importante, occorre notare come sia la domanda sia la risposta si riferiscono a situazioni di scelta. Socrate affermava che buona è quella persona che, dovendo scegliere, sceglierà di patire ingiustizia piuttosto che essere ingiusto verso altri, che subirà il male piuttosto che farne. Come disse Kant nel suo libro sulla religione: una persona che debba scegliere fra azioni diverse dovrebbe domandarsi se l’azione che sta per scegliere è buona o malvagia. Solo se essa risulta buona o moralmente neutra, allora può domandarsi se sia piacevole, più utile di altre azioni, o se porti un maggiore profitto.
Per tornare brevemente alla metafora dell’incrocio: nonostante non si possa scegliere la strada giusta attraverso una scommessa, si può sceglierla non solo attraverso considerazioni razionali, cercando di capire che cosa sia buono, bensì anche per impulso. Una volta, Hannah Arendt cercò di spiegarci che il male derivava dall’agire senza pensare. La stessa cosa per me può dirsi del bene. Siamo nati con apparati genetici diversi, con determinati potenziali talenti. Esiste una sorta di bontà che va al di là dell’educazione, presupponendo un’inclinazione innata per la bontà. Ce l’aveva, per esempio, senza dubbio Madre Teresa.
Il miracolo più grande è agire secondo il bene ma contro il proprio sistema di valori, contro le proprie credenze. Una donna racconta la storia seguente (questa storia viene citata da Friedlander). Ella fu portata ad Auschwitz, dove era in fila per essere selezionata da Mengele. Una ragazza tedesca stava in piedi accanto a Mengele, prendendo appunti. In un momento in cui lui guardava da un’altra parte, la ragazza tedesca si rivolse a lei e le chiese l’età. Tredici, rispose lei. No, no, disse la ragazza tedesca, quando lui ti chiederà l’età dì che ne hai quindici. Così fu: quando Mengele le chiese l’età, lei rispose: quindici. Tu menti, bastarda, disse Mengele, cacciandola via. Allora intervenne la ragazza tedesca dicendo: no, osservi, ha lunghe gambe, buone per lavorare, deve avere almeno quindici anni. In questo modo la vita di quella ragazza, ora anziana, fu salva. Dopo aver raccontato la sua storia, la protagonista aggiunse: perché la ragazza tedesca lo fece? Non c’è altra spiegazione se non presupponendo l’esistenza del libero arbitrio. Ella salvò la vita di una giovane ebrea. Perché? Prendeva appunti per Mengele, non poteva essere nemica del nazismo. Perché lo fece? Ella non ci pensò, fece quel che fece per impulso.
Che conclusioni si possono trarre da tutti questi casi differenti?
Ogni scelta umana presuppone l’esistenza dell’autonomia. L’individuo sceglie come singolo individuo, come «un’identità». Se si sceglie in cerca di consigli, approvazioni o disapprovazioni di altri, l’equilibrio fra autonomia ed eteronomia sarà instabile, dato che l’«identità oggettiva», il riguardo per gli altri, avrà un peso maggiore dell’istinto personale. Questo, tuttavia, non significa che l’azione sarà meno buona, meno corretta che in assenza di uno sguardo di altri, poiché dipende dalla visione morale degli altri, dalle incarnazioni dello sguardo, se l’atto scelto sarà migliore o peggiore.
Tuttavia, l’equilibrio fra autonomia ed eteronomia si sposterà verso l’autonomia quando il soggetto starà fermo da solo all’incrocio, o almeno deciderà di scegliere come se fosse lì da solo.
L’azione è normalmente attribuita a chi sceglie. Il soggetto può assumersi la responsabilità della scelta, così come può anche non farlo. Coloro che evitano le responsabilità riscrivono anche la loro autobiografia, nel tentativo difensivo di cambiare la propria storia. Riscrivere, reinterpretare l’autobiografia implica manipolare la memoria. Evitando la responsabilità, la situazione di scelta in sé verrà modificata in ricordo, molti lampi di memoria saranno respinti a livello inconscio, vale a dire dimenticati. Questo gioco difensivo può avere successo solo parzialmente, perché anche così influenzerà le scelte future dell’individuo al prossimo incrocio. Le scelte successive sono influenzate soprattutto dalla memoria consapevole, poiché ogni scelta essenziale è anche una sorta di ripetizione.
E infatti, la più autentica memoria soppressa non è ancora completamente persa. Può ricomparire sotto forma di ansia, come spasimo di coscienza e anche come trauma in ogni nuova situazione di scelta essenziale. Ho raccontato una breve storia a proposito dell’autonomia relativa, presente in tutte le nostre scelte in grado più o meno elevato. Ma che cosa dire a proposito del noto detto di Lutero: «Qui sono e non posso fare altrimenti?», e della famosa osservazione autoriflessiva di Nietzsche: «Non ho mai fatto una scelta?». Che cosa dire della scelta autonoma di non scegliere? Tutti si trovano di fronte a delle scelte, alcune essenziali, altre no. Ci sono scelte banali, scelte superficiali e scelte che definiscono il carattere. Le ultime sono essenziali, poiché esse sono definitorie del carattere, hanno gli effetti più duraturi e non possono essere ribaltate senza serie conseguenze. Le scelte più essenziali definiscono l’intera esistenza di una persona e per questo motivo sono chiamate scelte esistenziali.
Una scelta esistenziale definisce un carattere umano una volta per tutte. Se uno dice (come Lutero o Nietzsche) di non avere scelta, di non scegliere più, egli ribadisce di non poter far altro che camminare su una strada già scelta una volta per tutte. Certamente, persone che dichiarano di non avere più scelte possono ancora scegliere. Questi si trovano, come chiunque altro, di quando in quando, di fronte a scelte pragmatiche. Solo che nel caso di scelte tutte pragmatiche, quella essenziale, ovvero la scelta esistenziale che definisce il carattere, sovra-determinerà tutte quelle conseguenti.
In materia di etica (e di morale) solo l’espressione è nuova, non il messaggio. Aristotele affermava che se un uomo si esercita in tutte le virtù e ottiene giudizi positivi in situazioni reali, alla fine diventerà un «uomo buono», il quale non potrà scegliere se non il bene in ogni tempo, luogo, relazione, circostanza. Kant scrisse in modo ancor più eloquente nel suo libro sulla religione che l’autonomia in termini morali richiede prima di tutto che avvenga una rivoluzione della mente. La rivoluzione della mente è un capovolgimento nella relazione fra natura e libertà. Si decide che sarà la libertà trascendentale a determinare tutte le massime delle proprie azioni. Tuttavia, questa rivoluzione è solo il punto di partenza che deve essere seguito dalla riforma della nostra natura (umana). Essa rimarrà incompiuta come natura umana, o, al contrario, potrà compiersi solo in un progresso infinito o attraverso di esso. In altre parole: noi non abbiamo altra scelta che lasciare che la nostra natura sia determinata dalla pura ragion pratica. Non sappiamo se possiamo raggiungere questo stato, ma almeno sappiamo che cosa significhi «piena autonomia».
La piena autonomia è dunque identica in Aristotele e in Kant: essa è il perfetto stato di un carattere che non ha più scelte da compiere. Tuttavia, le loro filosofie sono totalmente differenti. Kant sapeva bene che, nel mondo moderno, anche aderire alle virtù comunemente accettate significa essere eteronomi. Non solo perché oggi non esistono virtù accettate consensualmente, ma perché, se anche esistessero, ci sarebbe qualcosa di «esterno» che definirebbe la bontà umana. E, poiché tali virtù non esistono, pensare attraverso situazioni, scopi e così via ci aiuterebbe nel perseguimento delle nostre scelte. Di nuovo, ci troveremmo di fronte a una situazione dettata dall’eteronomia.
Ora, come può essere immaginato o descritto il carattere definitorio ed essenziale che costituisce la scelta esistenziale, in termini di scelta autonoma? Come può essere descritta o anche solo immaginata
senza ricadere nelle speculazioni metafisiche sui due mondi non interconnessi, quello della Ragione e quello della Natura? Sollevando la questione in termini filosofici tradizionali: come posso argomentare in favore dell’esistenza di una scelta esistenziale che sia completamente autonoma e che sia, nello stesso tempo, sia trascendentale sia empirica? Una risposta filosofica a tale domanda stata cercata e trovata da Kierkegaard anzitutto nel suo Aut-Aut.
La scelta esistenziale non è scelta di questo o di quello, dello scopo della propria vita, non è la scelta di un’idea, di una professione, e nemmeno la scelta del bene. Scegliere questo piuttosto che quello non è una scelta totalmente autonoma, poiché chi sceglie è in questi casi determinato anche dall’oggetto della sua scelta.
La scelta esistenziale significa dunque scegliere se stessi. Scegliere se stessi è un salto, e come tale non è determinato. Una volta che una persona ha scelto se stessa, comincia a diventare colui o colei che ha scelto di essere. Noi non scegliamo l’arte, bensì scegliamo di essere artisti e, come conseguenza della nostra scelta, cominciamo a diventare artisti. Noi non scegliamo il bene, ma scegliamo di essere buone persone e cominciamo a essere quello che abbiamo scelto di essere, ovvero buone persone. Avendo fatto una scelta su noi stessi, non abbiamo più scelte da fare. Avendo scelto noi stessi, abbiamo scelto il nostro destino, cioè lo scopo e la destinazione della nostra vita. A quel punto non possiamo che tentare di raggiungere tale destinazione. Completa autonomia significa seguire il nostro sé, da noi scelto, come la nostra destinazione, senza mancare il bersaglio. Un’altra, diversa scelta essenziale, significherebbe abbandonare la via del nostro destino, da noi scelta. Una persona che abbandona il proprio destino diventa un fallito esistenziale, un nessuno, un naufrago.
Pensare all’autonomia attraverso una scelta esistenziale implica chiedersi se ciò comporti sempre un’autonomia di tipo morale. C’è un aspetto etico in ogni scelta esistenziale, ma non necessariamente anche uno morale. Talvolta è difficile distinguere uno dall’altro. Lutero sceglie se stesso proprio come la persona che riforma la cristianità. Questo era il suo destino, non poteva agire diversamente. Nietzsche scelse di essere filosofo, questo era il suo destino, non poteva agire diversamente. Soprattutto, ciò che è etico nel senso sopra descritto, non è anche morale, e talvolta contraddice in modo definitivo la moralità. L’etica di ogni scelta esistenziale richiede di essere fedeli alla scelta, di non tradirla, di non mentire mai, ma soprattutto di non mentire a se stessi. Si pensi a Don Giovanni nell’opera di Mozart. Egli è incitato a pentirsi dagli agenti morali del mondo, e per tre volte dice di no. Pentirsi, per la sua storia, avrebbe significato divenire un fallimento esistenziale. Egli rimane leale all’immoralità.
La scelta esistenziale di noi stessi è una scelta morale, e non solo etica, se si sceglie di essere una persona buona e si comincia a diventare la persona buona che si è scelto di essere. Di conseguenza, si diventerà una persona che di fronte a ogni scelta reale patirà il male piuttosto di farlo, senza ripensamenti, per proprio carattere, perché non sarà possibile una scelta diversa. Sarà un soggetto dotato di assoluta autonomia morale.
E tuttavia, esistono esseri completamente autonomi? Le persone buone esistono. Ne conosciamo tutti. In termini filosofici, essi hanno scelto di esserlo e diventano ciò che hanno scelto di essere. Tuttavia, conosciamo davvero di queste persone, che non sbagliano mai nel loro agire? Che sempre e in ogni circostanza sanno immediatamente ciò che è giusto e ciò che non lo è? Improbabile. E tuttavia, quali conseguenze possiamo trarne?
Così rifletté Kant quando ammise che non possiamo sapere se mai una persona in un qualunque luogo abbia agito unicamente determinato dalla ragion pura pratica. Forse nessuna. E forse non esiste nessuno che abbia scelto di essere una persona buona e che non abbia fallito, in qualche occasione, nel fare la cosa giusta.
Qualunque teoria abbiamo in mente, dobbiamo ammettere che nessuno di noi è totalmente autonomo, nessuno può scegliere in totale autonomia. Kant direbbe che la piena autonomia è un’ideale regolativo pratico. Nella vita quotidiana si può solo tentare strenuamente di evitare l’eteronomia. Come? In primo luogo, seguendo il consiglio di Kant: nelle scelte o nelle azioni è meglio valutare se la scelta sia giusta prima di valutare se sia piacevole o utile. In secondo luogo, è meglio evitare la cieca accettazione dell’opinione pubblica e delle ideologie. In terzo luogo, occorre fare del nostro meglio senza mentire a noi stessi. E infine, occorre essere consapevoli della relatività della nostra autonomia e della nostra fragilità di esseri accidentali.

Etica e reponsabilitàTratto da Etica e responsabilità, a cura di Francesco Miano (Orthotes 2018)

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