L’eredità più riconosciuta di Henry Corbin è quella dell’orientalista che ha fatto scoprire insospettate e ricche tradizioni spirituali-filosofiche dell’Iran shī’ita. Nel presente lavoro ci si è sforzati tuttavia di tenere assieme l’opera dell’esegeta e del fenomenologo della religione con quella del filosofo teoreticamente in grado di interrogare da un altro luogo i percorsi della metafisica occidentale sui temi centrali dell’essere e dell’“essere immagine”. Per esplicita ammissione, si può parlare di un’insolita prospettiva “docetista”, intesa come fenomenologia di specchi e icone, come metafisica immaginale capace di dare spessore a immagini in continua trasfigurazione dal visibile all’invisibile e viceversa. Le tradizioni religiose a cui si riferisce Corbin fanno infatti dell’immaginale la dimensione in cui hanno luogo i fenomeni spirituali. Sarebbe la rimozione di questo piano ad aver determinato, in Occidente, lo scacco di un nichilismo passivo, ostaggio del “paradosso del monoteismo” che, in ultima analisi, è sempre un’ontoteologia senza teofania.
Metafisica dell’immagine
Come ha saputo mettere in risalto uno dei suoi grandi interpreti contemporanei, Werner Beierwaltes, nel pensiero occidentale la tradizione platonica e neoplatonica può essere intesa come il più organico e potente tentativo di “realizzazione dell’immagine”: pensare la realtà come immagine. Non riduzione, privazione, spoliazione, depotenziamento del nostro mondo “reale”, ma riconoscimento della sua dimensione assoluta di non sostanza in sé, ma di relazione, rapporto, rinvio a un fondamento absconditus. Una condizione liminale che però ci spinge a pensare diversamente non solo il “reale” da noi presunto ma la nostra stessa concezione ovvia dell’immagine, fino a interrogarci paradossalmente sulla visibilità dell’immagine, cioè sul fatto che davvero la visibilità sensibile sia la proprietà fondamentale dell’immagine, dal momento che questa si dà come relazione all’invisibile.