Settembre 2021, nei social network circolano le fotografie delle proteste di Extinction Rebellion nel distretto finanziario di Londra. Il movimento ecologista manifesta davanti alla Bank of England per chiedere al governo britannico di porre fine a tutti i nuovi investimenti nei combustibili fossili e di affrontare la crisi climatica. Decine di persone vengono fermate dalla polizia. Molte portano con sé cartelli che recitano: “Arrested for caring”. A mostrare i cartelli ci sono anche molti uomini, giovani e meno giovani, tra loro spicca un distinto signore bianco di mezz’età in completo grigio e cravatta. In italiano questo slogan può essere tradotto con “Mi arrestano perché mi prendo cura”, o “Mi arrestano perché mi preoccupo”. Chi, in questa occasione, si preoccupa e si prende cura? A chi è rivolta la cura e perché le persone che la esercitano compiono un atto illegale? La protesta denuncia la “finanza fossile” che sovvenziona la crisi climatica e i governi che stanno a guardare mentre la temperatura del pianeta aumenta. La sollecitudine, la preoccupazione e l’azione collettiva sono una risposta alla precarietà della vita su un pianeta ridotto in rovina da relazioni socio-ecologiche organizzate intorno al paradigma dello sviluppo economico.
Le immagini di Londra evocano due elementi che qui ci interessa sottolineare. Primo, indicano uno slittamento verso una forma di cura multidimensionale che risponde a dinamiche e problemi politici di portata sociale ed ecologica. La cura coinvolge le persone, gli esseri viventi e le componenti biosferiche e atmosferiche da cui dipende la vita umana sul pianeta. Implica non solo e non tanto una visione intersoggettiva quanto una “responso-abilità” che coinvolge esseri umani e non umani in relazioni di interdipendenza. Secondo, mostrano che la circolazione e la distribuzione della cura sono un ambito di conflitto tra una varietà di attori che immaginano e praticano modelli di cura divergenti. Caring, in questo contesto, significa anche lottare, dedicare energie e tempo per trasformare relazioni di potere asimmetriche.
Possiamo leggere l’uso e la risignificazione del lessico della cura di Extinction Rebellion nel quadro di un’attenzione crescente a questo tema nell’accademia e nell’attivismo. Il movimento ecologista rinvia a un elemento che i saperi femministi hanno messo in luce da tempo: la cura è materia politica. Le immagini della protesta suggeriscono che la cura riguarda tuttə, che chiunque può (e dovrebbe) occuparsi di altre persone, del pianeta e delle generazioni che verranno. Per alcuni versi, sono un invito a disinvestire nella fantasia del soggetto autosufficiente, che vorrebbe bastare a sé stesso, ignorando la propria dipendenza da altri corpi, da altre forme viventi e non viventi, incluse le sostanze organiche e i processi chimici alla base dei combustibili fossili Questa fantasia, tipica della modernità occidentale, è stata esasperata nei decenni del neoliberalismo che esalta le capacità di auto-espansione dell’individuo e fa della dipendenza una colpa, una fonte di umiliazione, una patologia da arginare.
Tuttavia, come sottolineano le prospettive femministe e anti-razziste, la cura è attraversata da disuguaglianze che ne determinano l’organizzazione e la distribuzione. Sebbene la cura sia una questione di interdipendenza e relazione, è anche un insieme di attività disconosciuto e svalutato, tradizionalmente escluso dagli ambiti della politica e dell’economia, su cui ha prosperato il modello viril-capitalista che sfrutta manodopera poco o nulla remunerata, femminilizzata e razzializzata, e che trasforma corpi ed ecosistemi in risorse da appropriare. Per dirla con Pascale Molinier, la cura “è una zona nevralgica di conflitto, di tensioni, di tentennamenti, di ambivalenza”. Da questo punto di vista, il lessico della cura si presta a letture ambigue. Anche se la cura riguarda tuttə, alcuni soggetti dominanti della modernità, in particolare gli uomini bianchi, hanno goduto e continuano a godere del privilegio di delegarla ad altre. Così, se da una parte è necessario sottolinearne il ruolo, e ri-valorizzarla in chiave di alternativa al paradigma che pensa la costituzione del mondo in termini di produzione, d’altra parte è vitale formularne una visione non edulcorata. La cura, insomma, non è una pratica innocente, non è sinonimo di condivisione, di creazione di convivialità, ma comporta relazioni di potere con cui confrontarsi per modificarne il senso e trasformare le modalità del vivere comune.
Questo libro accoglie la proposta ecologista di fare della riconfigurazione delle relazioni socio-ecologiche un terreno di cura collettiva, ma assume come lente privilegiata quelle prospettive femministe che, non da oggi, hanno reso la cura un dispositivo critico, sensibile ai paradossi e alle ambivalenze. Anziché ridurre, ci interessa moltiplicare le ambiguità e interrogare il rischio di proporre visioni idealizzanti della cura che insistono sugli affetti positivi mettendo in secondo piano gli affetti negativi, il disagio, le disuguaglianze, le violenze ed esclusioni che attraversano le esperienze quotidiane di presa in carico della vita. Il volume restituisce questi elementi di dissonanza nell’attenzione alle tensioni tra diversi approcci femministi, alle sfide del femminismo nero e del femminismo decoloniale, alle prospettive trans, a quelle ecologiste e ai disability studies.
L’accento sulle ecologie nel titolo del libro rinvia ad assemblaggi di elementi eterogenei e non a unità organiche stabili e armoniose. In questo senso, i saggi nel volume coesistono per interrogare la cura e per interrogarsi l’uno con l’altro. Con Donna Haraway, pensiamo le ecologie come concatenamenti che coinvolgono viventi umani, non umani e tecnologie. Prestare attenzione alle ecologie della cura implica sfidare l’assunto secondo cui gli esseri umani esistono come individui separati, privi di un milieu più-che-umano che pone questioni e problemi dalla forza ineludibile. Al tempo stesso, significa fare i conti con configurazioni di potere che rendono i corpi ineguali e assegnano ad alcuni, piuttosto che ad altri, gli obblighi della cura. Significa, dunque, sforzarsi di tenere in vita e, insieme, porsi il problema di disfare le forme egemoniche della cura che producono esclusioni e privilegi.
Nel confronto con le dimensioni molteplici della cura, abbiamo tratto energia e concetti dai movimenti transfemministi, che in anni recenti, dall’Argentina all’Italia, hanno connesso la lotta alla violenza eteropatriarcale con quella alla violenza razzista, economica e ambientale, nello sforzo faticoso, dai risultati mai scontati, di aprire spazi di alleanza tra differenze. L’enfasi sulle prospettive transfemministe nel titolo, anche se non tutti i contributi sono riconducibili a questo orientamento, è un modo per riconoscerne la forza generativa, la capacità di pensare in maniera collettiva, dando vita a saperi e pratiche critiche e, al tempo stesso, prefigurative.
La cura come codice
Nel corso dell’emergenza Covid-19, come registrano il Care Collective e il testo di Pirate Care (in questo volume), il lessico della cura è diventato onnipresente tra governi, industrie farmaceutiche e imprese private. Al tempo stesso, a livello internazionale, ha acquistato peso nelle prospettive critiche, nelle analisi e nelle pratiche attiviste. Si è evidenziata una divergenza radicale tra modelli prevalenti di distribuzione della cura, tra il capitalismo razziale e patriarcale, e le pratiche alternative di soggettività eterogenee e potenzialmente alleate.
In Italia, nei primi mesi di contagio, confinamento e trauma collettivo di inizio 2020, il governo di Giuseppe Conte provava a smussare il rigido approccio disciplinare alla pandemia con un decreto legge dal nome rassicurante, Cura Italia, e la promessa televisiva di tornare ad abbracciarsi. Nello stesso periodo, in India, il primo ministro nazionalista Narendra Modi lanciava il PM CARE, un fondo aperto a donazioni private da usare per uscire dalla crisi sanitaria. Un anno dopo, l’iniziativa veniva travolta dalle critiche quando il numero di contagi portava il paese vicino al collasso. Eppure, l’attuale inflazione discorsiva della cura, gli usi mainstream, non sono nuovi, hanno radici in formazioni storiche su cui è opportuno soffermarsi.
Cristina Morini osserva che negli ultimi decenni la cura si è fatta «codice», è diventata un saper fare da mettere al lavoro e una strategia di governo. Qualità tradizionalmente associate alle attività delle donne – la premura, l’investimento affettivo, l’attenzione ai dettagli, la “capacità” di fare allo stesso tempo cose diverse – sono diventate parte integrante dei rapporti di lavoro e un asset irrinunciabile nell’economia della precarietà. Il codice della cura gioca un ruolo importante nel neoliberismo, una razionalità politica individualizzante in cui l’adozione di stili di vita equilibrati, l’esercizio fisico, le diete e le terapie, quando volti a migliorare le prestazioni individuali in ambiti competitivi, entrano a pieno titolo nel progetto di affermazione dell’homo economicus.
Queste tendenze vanno lette nel quadro di quella che Nancy Fraser e altre studiose hanno descritto come «crisi della cura» del capitalismo contemporaneo. A partire dagli anni Settanta, mentre l’industria manifatturiera veniva trasferita nelle regioni del mondo a basso salario, in Occidente il mercato del lavoro si apriva alle donne, costringendole alla doppia presenza tra occupazione e ambito della famiglia eterosessuale, dove gli uomini continuano a non farsi carico delle attività riproduttive. Al tempo stesso, gli stati neoliberali sottraevano risorse al welfare, aprendo ad attori privati la gestione di servizi sociali essenziali come la sanità, la scuola, i trasporti e la manutenzione degli spazi pubblici. Il lavoro di cura è ricaduto nella sfera del privato, creando una domanda di prestazioni a basso costo soddisfatta dalle catene di cura transnazionali che reclutano donne povere, migranti e razzializzate, spesso provenienti dai paesi che riforniscono l’economia globale anche di risorse alimentari e minerarie. Nei paesi ad alto reddito si assiste dunque alla crescita di un settore ampio, eterogeneo e fortemente precario, che fornisce servizi di assistenza all’infanzia, alle persone anziane e malate, si occupa della preparazione dei pasti e dei servizi di pulizia.
La crisi della cura, frutto dell’articolazione complessa tra gerarchie globali di genere, razza e classe, porta sempre più persone al logorio fisico e psichico. Inoltre, come mostrano le ecologie politiche femministe, questo logoramento non coinvolge solo gli esseri umani e le loro interazioni sociali ma si estende alla bio-geosfera come parte integrante delle catene di estrazione di valore. Stefania Barca propone il termine «forze di riproduzione» per indicare le attività di attori umani e non umani che rendono possibile il fiorire della vita sul pianeta ma che vengono sfruttate e mercificate nel processo di accumulazione capitalista. Questa prospettiva aiuta a riorientare la cura in senso socio-ecologico, a ridefinirla come pratica di trasformazione delle relazioni tra esseri umani e sistemi viventi e non-viventi. Si tratta di uno slittamento concettuale che rinvia a una progettualità politica tesa a favorire alleanze trasversali tra soggettività differenti per ridisegnare le forme della convivenza oltre il paradigma della produzione e del mercato.
La stessa pandemia può essere interpretata alla luce della crisi della cura, come effetto collaterale dell’imperativo di crescita economica che continua a impoverire gli ecosistemi, e allo stesso tempo, rende sempre più precarie le persone chiamate a svolgere servizi cosiddetti “essenziali” nelle case, nelle scuole e nella sanità. L’emergere e l’effetto letale del virus sono in relazione a un intreccio di trasformazioni socio-ecologiche che producono logoramento su scala planetaria. Queste comprendono, da una parte, i processi che favoriscono i salti di specie tra animali ed esseri umani all’origine delle zoonosi, ad esempio le deforestazioni, gli allevamenti industriali e l’agribusiness, e, d’altra parte, l’affermazione di modelli di cura sempre più orientati al privato e caratterizzati da disuguaglianze lungo linee geopolitiche di razza, classe e genere.
Eppure, nel contesto europeo, il rimedio all’impasse di cui la pandemia è una delle manifestazioni, consiste in un piano di rilancio che, al netto del mutato ruolo degli Stati e della spesa pubblica, non sembra discostarsi dalle politiche economiche degli ultimi decenni. Il piano NextGenerationEU punta a combinare una transizione ecologica modellata sul nesso tra profitti privati e protezione ambientale e un’innovazione digitale che promette efficienza senza costi. In un quadro di accelerazione delle disuguaglianze a livello locale e globale, l’Europa supporta la “buona vita” di pochi promettendo di diventare “più verde, più digitale e più resiliente”.
Già da diversi anni big tech come Google, Amazon, Facebook e Apple investono in settori del welfare come la formazione e la salute, occupando ambiti prima organizzati dallo Stato e dalle comunità. I modi in cui mangiamo, comunichiamo, insegnamo, studiamo, ci spostiamo, facciamo acquisti, sono sempre più legati ad applicazioni che raccolgono dati e offrono consigli, in un processo incessante di datificazione e modulazione delle condotte. La riorganizzazione della cura avanzata dalle multinazionali del digitale si basa su tecnologie della promessa a portata di click, un approccio soluzionista orientato a risolvere problemi senza occuparsi di ciò che li ha prodotti. Ogni soluzione viene elaborata da gruppi ristretti di decisori, è (etero)diretta a singoli utenti connessi e rimane solidamente ancorata al mercato. La politica viene così sostituita dalla tecnica e il governo si tramuta in governance.
Durante l’emergenza COVID-19, le piattaforme tecnologiche, e i regimi proprietari che le governano, hanno registrato un’ulteriore espansione, giocando un ruolo importante nella riconfigurazione in senso privatistico della cura e producendo, secondo la definizione dell’artista Ian Alan Paul, una distinzione sempre più marcata tra soggetti addomesticati/connessi e soggetti mobili/sacrificabili.
Nel processo di digitalizzazione, le dimensioni materiali tendono a rimanere in ombra. Restano opache le relazioni tra diversi nodi delle catene del valore, tra gli utenti delle piattaforme, l’esercito di cleaners che rimuove i contenuti non idonei, la manodopera nelle fabbriche di assemblaggio dei dispositivi tecnologici, le comunità che vivono e lavorano nelle zone di estrazione di litio, coltan e cobalto, tutte materie prime necessarie all’economia dell’innovazione.
L’attuale contesto di riconfigurazione della cura richiede dunque attenzione agli intrecci tra attori e dimensioni molteplici, incluse le connessioni tra le infrastrutture tecnologiche e le conseguenze socio-ecologiche delle operazioni estrattive.
Rigenerare mondi
In Italia come altrove, la cura ha acquistato nuove valenze nella ricerca e nelle pratiche dal basso che hanno proposto alternative alla gestione politica della crisi sanitaria. Nella fase “acuta” dell’emergenza, le reti di solidarietà per distribuire cibo e farmaci nei quartieri, le forme di mutuo aiuto tra donne, persone queer, sex workers e migranti, la scommessa sulle filiere alimentari corte e la creazione di forme di assistenza psicologica ha reso possibile la persistenza della vita di moltǝ. Forme di cura alternativa hanno creato rifugi tra le pieghe di un mondo che si sfalda.
Nonostante divieti e restrizioni, momenti di lotta collettiva hanno espresso il rifiuto della continua svalutazione del lavoro “essenziale”. Scioperi e altre forme di mobilitazione hanno denunciato la pressione delle imprese a scegliere tra lavoro e salute, e avanzato proposte per una sanità pubblica e distribuita sul territorio, per una scuola aperta e inclusiva. Il movimento transfemminista Non Una di Meno e i centri antiviolenza hanno denunciato e arginato come potevano il dilagare della violenza maschile nel lockdown. Le proteste di Black Lives Matter, con il protagonismo delle persone razzializzate, hanno aperto anche in Italia il dibattito pubblico, non più rinviabile, sull’eredità della storia coloniale e sul razzismo nelle istituzioni e nelle strade. I gruppi ecologisti hanno evidenziato i nessi tra la crisi sanitaria, quella ambientale e un insostenibile modello di crescita economica.
Eppure, la contestazione dei modelli dominanti della cura e le reti di mutuo aiuto sono continuamente messe a repentaglio da leggi che confondono pratiche di solidarietà con pratiche criminali, dalla mancanza di tempo, di risorse, dal logoramento fisico e psichico, dalla fatica e dal risentimento. La riconfigurazione dal basso della cura indica, tuttavia, che su questo terreno si gioca la possibilità di generare modi di vita che vale la pena vivere. Che cosa è essenziale e per chi? Quali relazioni sociali ed ecologiche vale la pena rigenerare e quali invece devono essere disfatte per trasformare le condizioni della vita in comune? Quali cure generano altri mondi? Se la cura è pratica necessaria di cui non si può fare a meno, all’analisi delle asimmetrie è necessario accompagnare strumenti e conflitti in grado di reimmaginarne le forme politiche, etiche ed estetiche.
Il corpus di ricerca sulla cura è ricco, voluminoso, plurale. In questa introduzione offriamo una breve ricognizione delle genealogie femministe a partire dagli anni Settanta. Senza pretese di esaustività, ci soffermiamo sulle prospettive che interrogano la cura come campo di potere piuttosto che assumerla come affetto positivo. Che cosa rimane da dire su una categoria ampiamente dibattuta, persino inflazionata? Che cosa accade quando le genealogie vengono interrogate da prospettive situate, alla luce delle trasformazioni del presente? Accenniamo qui a tre temi ricorrenti del volume per poi svilupparli nelle pagine seguenti. Le linee di ricerca che evidenziamo non sono di uguale importanza per ogni capitolo, ciò che è che centrale per uno diventa laterale per un altro. Ma si tratta degli elementi che, ci sembra, costituiscono l’originalità e la forza di questa raccolta.
Primo, interroghiamo la tensione, spesso evasa, tra l’etica della cura e il femminismo della riproduzione sociale. Quali sono i punti di attrito e quelli di convergenza tra queste genealogie? Che cosa offrono l’una all’altra e in che modo entrano in risonanza con i movimenti sociali contemporanei per creare alternative ai modelli dominanti della cura? Secondo, guardiamo a forme di contestazione e reinvenzione della cura, in Italia e altrove, ad esperienze in Brasile, Guatemala e altri territori ispanofoni. Dall’attenzione verso pratiche intellettuali e politiche, verso lotte situate, recenti o ancora in corso, è possibile ricavare indicazioni riguardo le potenzialità e i limiti della cura come categoria politica. In che modo il femminismo nero e decoloniale, e le forme di cura trans complicano approcci che si vorrebbero universali ma che in buona parte riflettono teorie e pratiche elaborate nell’ambito del femminismo bianco e occidentale? Terzo, individuiamo nelle dimensioni dell’ecologia e della tecnologia dei terreni significativi di analisi che richiedono attenzione. Come cambiano le analisi della cura nelle geografie disuguali dell’estrattivismo esteso ai territori, ai corpi e alle forme di cooperazione sociale? Qual è il ruolo della cura e della riproduzione in quello che Amaia Pérez Orozco (in questo volume) chiama «conflitto tra capitale e vita»?
Il volume indaga molteplici dimensioni della cura attraverso prospettive, approcci e strumenti di indagine diversificati, e incoraggia scambi tra la ricerca e le pratiche attiviste. L’obiettivo è problematizzare la cura. Non solo per metterne a fuoco il ruolo nei processi che hanno portato alla tripla crisi del capitalismo, sanitaria, economica e climatica, ma per riorientarla nel tempo che ci attende. La scommessa è offrire sguardi trasversali, non consolatori, tenendo insieme storie e scale diverse in una stessa cornice, per fare emergere alternative alle relazioni socio-ecologiche fondate sull’appropriazione, lo sfruttamento, le gerarchie di razza e genere. Sono queste relazioni che, per dirla con Achille Mbembe, hanno creato «un’impasse planetaria». Trasformarle richiede «né più né meno, di ricomporre una Terra abitabile che ci possa offrire la possibilità di una vita respirabile».
Traiettorie della cura
Le genealogie femministe della cura sono complesse, non-lineari, animate da prospettive e progettualità distinte. Ne delineiamo qui alcune, scelte perché centrali nella composizione del volume e riferimenti di rilievo per buona parte dei capitoli.
Negli anni Settanta, le femministe marxiste della campagna internazionale per il salario al lavoro domestico identificavano nel lavoro non remunerato delle donne un elemento chiave, eppure disconosciuto, per la riproduzione del capitalismo. Secondo le attiviste, le pulizie di casa, la cura quotidiana di figli e anziani, le prestazioni sessuali sono una forma di lavoro non pagato che rigenera la forza lavoro e dunque contribuisce direttamente alla creazione di valore. Leggendo Marx oltre Marx, questa prospettiva allargava la categoria di lavoro alle attività di cura che, con l’ascesa del capitalismo industriale, erano state naturalizzate come vocazione femminile nella famiglia eteropatriarcale. Negli stessi anni, il femminismo dell’autocoscienza, attraverso pratiche di autoinchiesta e la politica dell’inconscio, faceva uscire dal silenzio i corpi e la sessualità delle donne e metteva in discussione il dominio maschile. La frase “Più polvere nei cassetti e meno polvere nel cervello”, titolo di un testo redatto nell’ambito delle 150 ore per le donne casalinghe a Milano, restituisce l’insubordinazione nei confronti delle forme di espropriazione patriarcale del corpo femminile e la contestazione del primato delle relazioni economiche su tutti gli altri rapporti sociali.
Il femminismo degli anni Settanta avviava, non senza contraddizioni e omissioni, la riconfigurazione critica del concetto di riproduzione sociale, interrogando il primato del lavoro produttivo e dunque del soggetto operaio nei processi rivoluzionari. L’analisi della riproduzione, spesso sviluppata a stretto contatto con l’attivismo, ha via via rivelato dinamiche e linee di mutamento del capitalismo. Queste includono lo studio delle connessioni strutturali tra sfruttamento del lavoro riproduttivo e l’appropriazione della natura nel capitalismo coloniale, le indagini sulla crisi della cura, la femminilizzazione del lavoro, il biocapitalismo, e il rapporto tra violenza di genere e debito nel neoliberismo.
Risale agli anni Ottanta l’articolazione della cura nel femminismo nero. Già all’inizio del decennio, Angela Davis notava la parzialità della lettura femminista marxista. La campagna per il salario al lavoro domestico, secondo Davis, non rendeva conto delle stratificazioni di genere, razza e classe che, a partire dalla tratta transatlantica di esseri umani e dalle economie di piantagione, hanno dato forma all’esperienza del lavoro e dello spazio domestico delle donne nere. La poeta afroamericana Audre Lorde, dal canto suo, offriva un’influente formulazione di “self-care” reclamando la cura di sé come atto di «guerra politica». Nel racconto della malattia vissuta tra il razzismo pervasivo e l’assenza della sanità pubblica negli Stati Uniti, Lorde restituiva il senso della cura di sé come strumento di sopravvivenza in un contesto che, anche oggi, produce la vulnerabilità alla morte prematura dei corpi razzializzati. Anche se la self-care è stata fagocitata dal mercato, rimane rilevante nei movimenti neri, come parte della strategia di creazione di reti antirazziste. L’insistenza sulle trame comunitarie, che permettono la sopravvivenza di corpi resi precari da forme di violenza sistemica, emerge anche nell’attivismo e nei saperi queer e trans. Reti allargate di intimità e parentele fuori dal contesto, spesso ostile, della famiglia d’origine, hanno aperto spazi vitali, rifugi e vie di fuga dalle norme che regolano genere e sessualità. Questi saperi ed esperienze si riflettono in movimenti di protesta come Black Lives Matter, caratterizzati fin dagli esordi dal protagonismo di donne nere e persone queer e trans.
Sempre a partire dagli anni Ottanta, nell’accademia anglo-americana, si sviluppa l’etica della cura femminista che dimostra una grande forza di attrazione interdisciplinare, dalla teoria politica alla sociologia delle migrazioni, agli studi della scienza, con ricadute sul piano della politica. Nella formulazione di Carol Gilligan, la cura, ovvero l’attenzione agli altri, orienta le scelte morali di persone calate in relazioni di interdipendenza e capaci di rispondere ai bisogni altrui. Questo accento sulla dimensione relazionale complica la visione universale e astratta della giustizia a lungo prevalente nei dibattiti di filosofia morale. La tesi di Gilligan, poi in parte rivista, secondo cui questa postura etica sarebbe più frequente nelle donne e legata a un particolare sviluppo psico-cognitivo, è stata messa in questione nelle letture successive che ne hanno mostrato i limiti, pur preservando la critica di fondo al mito dell’autosufficienza individuale. Per autrici come Joan Tronto e Pascale Molinier, il problema è, da una parte, contestare l’idea della cura come “inclinazione” femminile e ridefinirla come lavoro assegnato a soggetti subalterni, donne e persone razzializzate. D’altra parte, si tratta di pensarla come attività rivolta a soddisfare i bisogni primari di ognunǝ e restituirne, oltre alle asimmetrie, anche la complessità affettiva, incarnata, senziente. L’obiettivo, scrive Tronto, è dare valore politico alle attività che sostengono e riparano il mondo, inteso come l’insieme di corpi e ambiente, “in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile”.
Per Tronto la cura è «un’attività della specie», sono gli esseri umani a esercitarla attraverso quei gesti svalutati e screditati che pure tengono insieme il mondo. Tuttavia, osservano gli studi femministi della scienza, la vita umana dipende da un milieu planetario, da un assemblaggio di forze verso cui coltivare attenzione. María Puig de la Bellacasa rivisita la formulazione di Tronto decentrando però l’agire umano e l’intenzionalità del soggetto etico. Tuttavia, non trascura l’assunzione di responsabilità politica nel sfidare lo sfruttamento e le disuguaglianze delle forme dominanti di distribuzione della cura. Riparare il mondo è un processo che coinvolge agenti umani e non umani e le storie, tutt’altro che innocenti, che li hanno prodotti. La cura, per Puig de la Bellacasa, non è unidirezionale, è un fare che coinvolge e trasforma i vari agenti coinvolti.
Secondo Annemarie Mol, autrice di ricerche etnografiche sui processi decisionali nelle relazioni tra medici e pazienti, «l’arte della cura implica agire senza cercare di esercitare controllo». Si tratta di un processo fatto di tentativi ed errori, che si adatta alla specificità del contesto e si avvale di strumenti e tecnologie. Mol mette in questione la distinzione tra pratiche calde, affettive e corporee, e la tecnologia pensata come fredda razionalità organizzatrice, contribuendo così a decostruire la retorica della cura come gesto “materno” e amorevole che rende invisibile la fatica dei corpi, ma anche le mescolanze tra questi e gli strumenti nelle pratiche quotidiane. La cura, qui intesa come logica, richiede saperi, strumenti e tempi aperti per sperimentare. Gli studi femministi della scienza e della tecnologia mettono al centro la relazionalità e l’interdipendenza senza rimuovere il potenziale generativo del dissenso e dei “tagli”. Ciò significa che il prendersi cura può includere forme di disconnessione: disfare alcune relazioni può essere una pratica volta alla costruzione di vite più vivibili.
I capitoli di questo volume rivisitano le traiettorie della cura qui accennate. Ne testano l’attualità alla luce del presente, facendo emergere limiti e potenzialità, tensioni e intersezioni possibili.
Tra etica e riproduzione
Nel tracciare, anche solo a grandi linee, le genealogie della cura, emergono tensioni a cui vale la pena prestare attenzione. Tra queste, registriamo la relazione complessa, ma discussa solo in modo intermittente, tra il femminismo della riproduzione sociale e l’etica della cura. Questi approcci convergono nel ripensare le pratiche di cura come lavoro e ridefinire il lavoro alla luce delle attività riproduttive, ma rimangono elementi di differenza. Come nota Brunella Casalini, se la prospettiva etica «problematizza la natura delle relazioni di cura, ne mostra la complessità, le difficoltà e i costi», il femminismo della riproduzione sociale «consente di cogliere meglio le sollecitazioni e i mutamenti cui è stato soggetto per effetto delle trasformazioni del sistema capitalista globale nelle sue diverse fasi». Tuttavia, questa considerazione non si traduce nell’invito a liquidare l’una o l’altra prospettiva. Al contrario, apre a scambi e rimandi. Sarebbe poco lungimirante dismettere l’etica della cura come portatrice di residui sentimentali, quasi una distrazione nel percorso di formulazione di una progettualità politica anticapitalista. Sarebbe altrettanto controproducente evocare la centralità della cura senza mettere a fuoco i modi in cui questa è distribuita, privatizzata, non retribuita e negata nelle geografie irregolari del capitalismo patriarcale e razziale. Invece che ignorare la tensione, conviene dunque chiedersi che cosa queste griglie concettuali hanno da offrire l’una all’altra.
Il femminismo della riproduzione sociale interroga forme di sfruttamento e dinamiche di appropriazione su scale globale che poggiano sulla subordinazione della sfera riproduttiva rispetto a quella produttiva. L’etica della cura guarda alla vulnerabilità e all’interdipendenza dei corpi, presta attenzione alla microfisica delle relazioni e alla specificità di contesti, facendo emergere la dimensione qualitativa del lavoro di cura. Entrambe le prospettive rendono visibile, e politicizzano, una dimensione del vivere comune storicamente esclusa dalle narrative dominanti dell’economia e della politica. Non sorprende allora come i movimenti contemporanei, soprattutto quelli femministi e queer, interagiscano con queste cassette degli attrezzi concettuali producendo frizioni generative, capaci di tenerle insieme.
In questo volume, Brunella Casalini torna sulla relazione complessa tra etica della cura e riproduzione sociale nel suo contributo a questo volume. Il saggio rilegge Love’s Labor di Eva Feder Kittay, un classico dell’etica della cura, attraverso una doppia lente. Da una parte, i disability studies che interrogano la relazione tra chi si prende cura e chi la riceve, dall’altra l’analisi di Nancy Fraser sulla contraddizione tra capitale e riproduzione sociale. Attraverso l’analisi critica del ruolo dello stato e del reddito al lavoro di cura nel lavoro di Kittay, Casalini propone di ripensare il welfare state in chiave di universalizzazione della cura, in modo da rimodulare la relazione tra Stato e pratiche di messa in comune (commoning) dei movimenti.
Il contributo dell’economista femminista Amaia Pérez Orozco guarda alle potenzialità e i limiti della cura nel femminismo ispanofono in relazione alla cornice concettuale della “sostenibilità della vita”, emersa proprio dal tentativo di superare la dicotomia tra produzione e riproduzione. Nominare la cura come “mano invisibile della quotidianità”, ha permesso di affrontare la materialità di relazioni quotidiane dentro e fuori il mercato. Ma accanto a questo, sostiene Pérez Orozco, si impone la sfida politica di leggere la cura attraverso le disuguaglianze, decentrando cioé l’esperienza delle donne del Nord globale, cis, bianche, eterosessuali e di classe media. In questo quadro, se il termine cura è utile a nominare ciò che mantiene la vita in vita, si potrebbe usare la nozione di riproduzione sociale per riferirsi alle forme di cura egemoniche che agiscono a spese della sostenibilità della vita.
Anche Valeria Ribeiro Corossacz guarda alla cura a partire dalle lotte alle disuguaglianze, in particolare quelle prodotte dall’intersezione di razzismo e sessismo nell’esperienza delle lavoratrici domestiche in Brasile. L’indagine etnografica mette a fuoco i paradossi della cura come lavoro e come pratica di vita. Le lavoratrici brasiliane contestano da tempo la svalorizzazione del lavoro domestico e le asimmetrie di razza, genere e classe che lo strutturano. Nel corso della pandemia, questa lotta si è tradotta in una campagna pubblica che esorta a prendersi cura di chi si prende cura. Eppure, rileva Ribeiro Corossacz, raramente le lavoratrici brasiliane mettono in questione la divisione sessuale del lavoro e spesso pensano la cura della propria casa come attività per cui vorrebbero avere più tempo.
Da una prospettiva diversa, quella della politica ontologica, Laura Centemeri dialoga con Annemarie Mol e María Puig de la Bellacasa e propone di distinguere tra la cura come lavoro, ovvero le attività riproduttive sfruttate nell’economia capitalista, e la cura come logica di relazione, che consiste nella ridefinizione del “valore” in esperienze situate di interdipendenza. Rivisitare la creazione di valore in chiave non capitalista permette di fare della cura una lente critica per leggere non solo la sfera riproduttiva ma anche la scienza, la tecnologia e l’ecologia, cioè il mondo «più che umano». La logica della cura si manifesta ad esempio nella permacultura, una pratica agro-silvo-pastorale basata sull’interdipendenza ecologica, in cui la progettazione di ecosistemi produttivi cerca di far dialogare le entità disparate che li compongono. Se l’approccio alla cura come lavoro rende visibili ingiustizie e forme di sfruttamento, la cura come logica di relazione permette di cogliere una molteplicità di azioni non riducibili alla sola categoria di lavoro. La sfida, sostiene Centemeri, è articolare i due approcci in lotte per il diritto a fare le cose “con cura”, oltre le condizioni sempre più alienanti del lavoro nel capitalismo.
Curare in comune
Centrali, in questo libro, sono le pratiche che contestano e reinventano la cura a partire da lotte situate, oltre la visione morale che associa la cura alla femminilità, e i modelli dell’individualismo liberale e neo-liberale. Le pratiche di cura dal basso, nota Ilenia Caleo (in questo volume), agiscono per “ri-mediare l’individuato, rimarginare i tagli prodotti dall’idea di autosufficienza”. Françoise Vergès (in questo volume) evoca “un archivio vivente” di solidarietà, mutuo aiuto e fare comune, un repertorio di gesti e azioni collettive che offrono risorse di sopravvivenza, resistono la violenza dell’organizzazione normativa degli spazi e dei ruoli della cura e gettano le basi per una nuova struttura del sentire. Esempi storici, ampiamente discussi, sono la diffusione di consultori femministi autogestiti nell’Italia degli anni Settanta e la condivisione di tecniche abortive tra donne in luoghi dove l’interruzione di gravidanza era (o è) illegale o difficilmente accessibile; il programma di colazioni gratuite del Black Panther Party negli Stati Uniti; i gruppi di auto-formazione di Act Up che, ancora negli USA, hanno promosso saperi medici dal basso in grado di modificare i protocolli di cura ufficiali. Questo archivio è diventato più visibile nell’emergenza Covid-19, quando le reti di solidarietà tra generazioni, tra persone migranti e precarie, tra donne e soggettività queer, hanno reagito all’inadeguatezza delle politiche disciplinari di contenimento virale.
Se Casalini invita a reinvestire nel welfare, e valorizza il ruolo dei movimenti sociali nel processo continuo di democratizzazione delle istituzioni, altri capitoli del volume osservano come le stesse istituzioni del welfare, a partire dalla sanità, siano implicate in storie di esclusione, in forme di cura selettiva o normativa. Mackda Ghebremariam Tesfaù esplora il ruolo della self-care nel femminismo nero, dagli scritti di Audre Lorde all’attivismo intersezionale di Black Lives Matter. Il saggio dimostra che per Lorde la riflessione sulla malattia, il cancro che affronta tre volte nel corso della vita, è inscindibile da quella sul razzismo istituzionale. La cura del sé non è questione individuale ma parte di una lotta in cui la possibilità di guarigione del corpo singolo rinvia a quella di un corpo collettivo reso vulnerabile da una violenza storica, la riduzione in schiavitù, che si riproduce nel razzismo istituzionale. L’esperienza della cura delle donne razzializzate, spiega Ghebremariam Tesfaù, non è sovrapponibile a quella delle donne bianche. Le donne nere sono state tenute ai margini della costruzione normativa del genere, da quella ideologia della femminilità bianca incarnata da figure materne “naturalmente” dedite alla cura. Mentre il femminismo marxista ha identificato la famiglia e la casa come ambiti primari di sfruttamento del lavoro delle donne, il femminismo nero mostra che questi spazi possono fare da argine al razzismo pervasivo. Come rileva anche Ribeiro Corossacz, l’esplorazione di queste differenze fa emergere posizioni di potere e privilegio nell’economia della cura.
Hil Malatino, filosofo e critico culturale statunitense, riconosce il valore degli approcci femministi alla cura ma ne considera i limiti nel dare conto di forme di sollecitudine, attenzione e presa in carico al di fuori dello spazio eteronormativo della famiglia nucleare. Malatino invita a reimmaginare la cura, come postura etica e come attività concreta nella quotidianità, a partire dal vissuto di corpi queer e trans spesso espulsi dalle famiglie di origine. Che cosa succede quando l’enfasi non cade sulla sfera domestica e il lavoro riproduttivo, ma sulle attività e gli spazi che sostengono la vita delle persone trans? Oli Fiorilli e Márcia Leite riprendono questa domanda nel raccontare l’esperienza italiana di DePath, rete di condivisione e mutuo aiuto tra persone trans e non-binarie. La messa in comune di tempo, saperi e tecnologie contrasta con un sistema medico-amministrativo che tratta le persone trans come portatrici di una patologia da correggere per ristabilire un corretto allineamento tra sesso assegnato alla nascita e identità di genere. Fiorilli e Leite considerano le alleanze tra diverse pratiche di cura ribelli in un quadro politico più ampio, in cui torna il tema della riconfigurazione del pubblico in senso aperto, dal sistema sanitario, alle misure di protezione dalla povertà, alla ridefinizione stessa della cittadinanza.
Ilenia Caleo, artista e studiosa di performance studies, riflette sulla relazione tra cura, queer commoning e possibilità di ri-fare le istituzioni a partire dai corpi e dai movimenti del lavoro artistico che hanno generato esperimenti di occupazione culturale come il Teatro Valle di Roma, l’Asilo Filangieri di Napoli e Macao di Milano. Con Gilles Deleuze, Caleo propone di leggere le istituzioni attraverso la lente dell’immaginazione, come espressione generativa di una collettività piuttosto che limitazione dell’agire. Ne emerge una visione delle istituzioni della cura in conflitto con i regimi proprietari, fondata su comunità di uso che mettono in crisi la figura dell’individuo come unità di base della società e della politica. L’indicazione è: non possedere ma prendersi cura.
Ecologie e tecnologie
La riflessione sui corpi umani e non-umani, sulle pratiche di uso senza appropriazione e sulla resistenza a processi di privatizzazione e spossessamento, torna nei capitoli che in modo più diretto si confrontano con ecologie e tecnologie, due dimensioni della cura relativamente meno esplorate nei dibattiti correnti, almeno nel contesto italiano. Nel volume, diversi capitoli le pensano insieme per complicare la rigida distinzione tra ambito “naturale” e ambito “sociale” e cogliere dinamiche di valorizzazione capitalista che oggi coinvolgono l’innovazione tecnologica, i corpi e il mondo materiale.
Richiamando la sfida di Annemarie Mol alla dicotomia tra cura e tecnologia, il contributo del collettivo Pirate Care adotta l’attitudine hacker della condivisione, dell’apertura e dell’infrazione dei regimi proprietari per ripensare la cura in chiave pirata. Il capitolo descrive tre tendenze interconnesse del capitalismo: l’accelerazione nella divisione del lavoro di cura attraverso le piattaforme digitali private; la commercializzazione crescente di saperi, strumenti e materiale biologico nei campi della medicina e della sanità; l’accaparramento di terre che crea nuove frontiere di estrazione e priva le persone dei mezzi di sostentamento, costringendole alla migrazione. Queste dinamiche convergono nella trasformazione in asset economici di infrastrutture e forme di cooperazione sociale, uno spostamento che rende urgente riposizionare la cura come pratica conflittuale rispetto alla proprietà privata di saperi, tecnologie e natura.
Anche Manuela Zechner e Bue Rübner Hansen rivolgono l’attenzione alle infrastrutture tecnologiche, nello specifico i social network, e propongono di leggerle attraverso le lenti dell’ecologia, ovvero come parte della rete della vita costituita da flussi di materia ed energia. La premessa è che la mancanza di cura delle società neoliberali in rete non vada affrontata con un ritorno al passato, alla famiglia tradizionale, ma ricalibrando la relazione tra vite offline e online. La scommessa, non di poco conto, è reimmaginare i social network affinché diventino non solo spazi dove manifestare un generico interesse verso qualcuno o qualcosa (la dinamica prevalente nelle piattaforme proprietarie), ma parte dello sforzo di dare corpo e organizzare la cura nella quotidianità.
Spostando lo sguardo da dinamiche globali a contesti specifici, è possibile cogliere il nesso tra economie dell’innovazione e operazioni situate di estrazione e sfruttamento che coinvolgono corpi sessuati e razzializzati, e i loro territori. l dialogo tra Giulia Marchese, studiosa di femminicidi e parte del collettivo femminista messicano GeoBrujas, e la Red de Sanadoras Ancestrales restituisce il ritmo del processo avviato dal femminismo comunitario in Guatemala. Un percorso volto alla guarigione fisica, emotiva e spirituale di donne indigene che vivono multiple oppressioni, inclusa la violenza epistemica e materiale del colonialismo, la violenza maschile e quella di attori statali e privati impegnati nella produzione ed esportazione di materie prime. Nel Guatemala contemporaneo, dove la popolazione maya è sopravvissuta al terrore seminato dalla dittatura di Efraín Ríos Montt negli anni Ottanta, la Red de Sanadoras Ancestrales pratica da anni la difesa del corpo-terra, vissuto come continuum di sfruttamento e violenza, ma anche resistenza e guarigione collettiva. Il corpo-terra, un concetto dalla genealogia specifica variamente ripreso, anche in Italia, in contesti femministi non-indigeni, è espressione della cosmovisione maya secondo cui i corpi e i territori sono dimensioni distinte ma connesse dalla stessa energia vitale. L’enfasi è qui posta sulla guarigione piuttosto che sulla cura, in un processo che connette la riparazione del sé a quella della comunità e della terra.
L’altro dialogo nel volume, con Françoise Vergès, insiste sul nesso tra la storia della divisione del lavoro riproduttivo e la storia ambientale, tra il logoramento dei corpi, in particolare quelli di donne razzializzate, e la devastazione ecologica. Questo testo si inserisce nel dibattito critico sull’Antropocene, il nome proposto nell’ambito delle scienze della Terra per l’attuale epoca geologica. Se nella comunità scientifica prevale uno sguardo disincarnato che poggia su dati e modelli matematici per enfatizzare l’impatto di un’indifferenziata specie umana sui processi planetari, per Vergès la crisi socio-ecologica va letta insieme alle storie di sfruttamento e appropriazione. Dalla prospettiva delle persone razzializzate su cui ricade il peso di “ripulire il mondo”, dalle città globali alle discariche di rifiuti elettronici in Africa e nel sud-est asiatico, l’Antropocene diventa «Capitalocene razziale». La definizione della cura, suggerisce Vergès, va riorientata tenendo conto di queste asimmetrie.