La collana BIT nasce con l’intento di definire un “canone cibernetico”, proponendone alcuni mattoncini teorici fondamentali. Si tratta di un’operazione non esente da una certa paradossalità: la cibernetica è stata un fenomeno plurale, attraversato da tensioni e differenze, caratterizzato da stili e temperamenti contrastanti, spesso antitetici, difficilmente canonizzabili. Il canone cibernetico che la collana BIT propone va dunque pensato come un’unità differenziale, i cui bit, lungi dall’essere semplici bulding-block, sono differenze che fanno la differenza (per riprendere la definizione di informazione proposta da Gregory Bateson). Il canone si configura, così, non tanto come un edificio quanto come una rete, ricca di snodi, rotonde, strade interrotte, vicoli ciechi, svincoli e percorsi alternativi.
Si avverte una strana sensazione di dissonanza temporale quando si leggono, oggi, i cibernetici: i loro testi sono ammantati da un’aura di inattualità che rende difficile capire se ci parlano da un passato morto e sepolto o da un futuro imminente. Disseminati nella temporalità plurale di questa rete, oltre ai “ferri vecchi”, si trovano snodi che prefigurano diversi ambiti di ricerca come l’intelligenza artificiale, le neuroscienze computazionali, la biologia dei sistemi; si trovano elementi che oggi sono centrali nei post-human, nei digital e nei media studies; si trovano soprattutto strade interrotte, programmi di ricerca abbozzati e mai proseguiti, tutta una sfilza di “possibili” su cui, oggi più che mai, vale la pena riflettere.