Logica del senso, ultimo dei capolavori deleuziani degli anni Sessanta, sembra trarre diligentemente le conseguenze della propria logica paradossale e straniante, vagando come Alice nel bosco di Tulgey Wood, o come il protagonista tipico dei grandi romanzi russi dell’Ottocento, che, uscito di casa per fare qualcosa, dimentica puntualmente di cosa si tratti. La prima serie di paradossi di Logica del senso mette subito in tavola la portata principale del tè pomeridiano di Alice: il divenire puro. Per servirlo, Deleuze ha bisogno di un piatto piano, “superficiale”, uno specchio sulla cui superficie levigata possa scivolare il senso. Ecco dunque venire a galla un nesso fondamentale tra la dimensione del divenire e quella della struttura, tra l’evento e il linguaggio. Per Deleuze, il senso-evento rende conto del rapporto tra parole e cose, senza tuttavia confondersi né con le prime né con le seconde.
In altri termini, il linguaggio ci rende capaci di accedere al registro degli eventi, e infatti: «Il linguaggio è ciò che si dice delle cose». Se «in Carroll tutto ciò che accade, accade nel linguaggio», l’alternativa per il soggetto sarà pertanto tra «mangiare o parlare». La dualità dei corpi e delle proposizioni…