Corpi migranti e memorie mediterranee
Siamo a Roma, in un internet point, di quelli con le cabine telefoniche per le chiamate internazionali. Dagmar e Negge compongono sulla tastiera un numero in Libia. È una delle sequenze del documentario Come un uomo sulla terra, realizzato nel 2008: uno dei primi a ripercorrere le rotte dei migranti in viaggio attraverso il Mediterraneo. A cercare di raccontare, con la loro voce, la propria storia. Guidati, in questo viaggio a ritroso, da Dagmar, che quell’esperienza e quella memoria le ha condivise. I due giovani provano più volte a comporre il numero di Jonas, un ragazzo etiope che da più di un anno si trova nel carcere libico di Misratah. Vicino a loro si vedono i volti di altri amici etiopi, che attendono di avere notizie.
“In qualche modo ce l’ha fatta, anche se la vita qui non è semplice”
Dopo qualche tentativo, finalmente Jonas risponde. È Negge a parlare con lui – il compagno con cui aveva condiviso una parte della sua prigionia in Libia. Si salutano, si chiedono come stanno. E Negge entra subito nel vivo, chiedendo all’amico se ha notizie sui tempi della sua scarcerazione. Ma Jonas non sa nulla. È da un anno e 4-5 mesi che sta lì, senza poter avere accesso ad alcuna assistenza legale o informazione sul suo futuro. Negli ultimi tempi senza vedere nessuno. Negge invece è in Italia. In qualche modo ce l’ha fatta, anche se la vita qui non è semplice. Ma incoraggia Jonas – Joni, come lo chiama affettuosamente – mentre nel suo sguardo si avverte quel disagio, quel senso di colpa dei sopravvissuti, di chi è riuscito a salvarsi. A questo punto la conversazione si sposta su Tighist, che è inquadrata lì accanto alla cabina telefonica. Una ragazza etiope, conosciuta in Libia durante la comune detenzione, che ha chiesto a Negge di portare i suoi saluti al compagno rimasto in prigione.
Ed è qui che avviene il dialogo che più di tante interviste, di tante storie raccolte in questi anni sui viaggi attraverso il deserto e il mare, mi restituisce il senso drammatico della violenza arbitraria, della brutalità di regimi migratori che hanno consegnato al silenzio e all’orrore le vite di uomini e donne che, nonostante tutto, continuano in forme minime, ma vitali, a sperare. Negge riporta a Jonas, chiuso nella sua cella libica, i saluti di Tighist che aveva trascorso molto tempo con lui quando si trovavano assieme nel carcere di Misratah. Ma Jonas, sentendo pronunciare quel nome, non sa più chi sia, non ricorda quella ragazza. «Ok, ok, salutamela… Non me la ricordo, ormai non ricordo più neanche i miei familiari…» risponde, piangendo, evidentemente scosso da un’emozione lucida che gli fa toccare l’oscurità in cui quell’esperienza atroce sembra averlo confinato. «Ho dimenticato tutto…», aggiunge, e il suo pianto scuote gli amici in Italia che cercano di incoraggiarlo a resistere.
“Ok, ok, salutamela… Non me la ricordo, ormai non ricordo più neanche i miei familiari…”
La scena procede con l’ultima battuta con cui si conclude la telefonata. Parole che ancora oggi, pur sentite tante volte, mi emozionano profondamente e mi inducono a riflettere sulla valenza profonda della testimonianza di chi, pur tormentato da un presente carico di atrocità e barbarie, riesce comunque a sopravvivere, a guardare al futuro: «Di’ a tutti che ci incontreremo un giorno…ci incontreremo…» dice Jonas, prima di salutare gli amici e ritornare nell’oblio.