Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes sono due giganti del pensiero morale e politico. Quali sono le affinità tra le loro dottrine? Quali, invece, le fondamentali divergenze? In che modo Hobbes ha letto Machiavelli? Come ha recepito le intuizioni antropologiche e le analisi politiche machiavelliane all’interno del proprio pensiero? Il libro tenta di rispondere a queste domande attraverso un serrato confronto storico e teorico tra queste due figure cardinali della prima modernità. Ne risulta uno Hobbes che, fin dai propri esordi giovanili nel circolo baconiano dei Cavendish, dialoga a fondo con i testi machiavelliani. Da questo dialogo, talvolta sotterraneo e talvolta esplicito, Machiavelli e Hobbes emergono come grandi critici umanisti dell’umanesimo. Entrambi, pur attingendo alle forme argomentative tipiche dell’umanesimo, condannano il pathos classicistico degli studia humanitatis come una saggezza soltanto apparente. Vera saggezza non è la storia né l’eloquenza, ma l’arte: l’attuazione metodica dei propri disegni, capace di vincere l’ostilità della fortuna e la brutale indifferenza della natura.
L’apparente saggezza
Nel Leviatano, Hobbes definisce l’eloquenza come una «saggezza apparente» [seeming wisdom]. Chi parla in modo eloquente sembra saggio, a sé e agli altri: per questo l’eloquenza «inclina all’ambizione». L’eloquenza conferisce potere sugli altri, perché è un’apparenza di prudenza [seeming prudence]; questa apparenza dà reputazione, e «noi affidiamo a uomini prudenti, più volentieri che ad altri, il governo di noi stessi». La padronanza pubblica del linguaggio dà eminenza, porta autorità sugli altri, perché fa stimare l’oratore come un uomo saggio e prudente.
Nel primo capitolo del Leviatano, Del senso, Hobbes introduce il concetto di seeming come un aggettivo sostantivato, sinonimo di fancy o fantasia. Seeming o fancy è l’immagine celebrale che si forma in seguito all’urto materiale degli oggetti esterni sul nostro corpo. Come tale, non ci dice nulla sugli oggetti in quanto tali: Hobbes denuncia come un’assurdità la dottrina delle «scuole di filosofia di tutte le Università della Cristianità», fondata «su certi testi di Aristotele», secondo cui i sensi ricevono le specie sensibili degli oggetti. Il senso, sostiene invece Hobbes in accordo con Galileo, non ci informa in alcun modo sulle qualità intrinseche degli oggetti. L’apparenza o fantasia sensibile è, nel fenomenismo hobbesiano, una sembianza soltanto soggettiva delle cose, delle quali comunica solo l’eco estenuata e indiretta. Questa apparenza persiste in noi anche in assenza dell’oggetto, e diventa allora immaginazione.