Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos

Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos insegna Law e Theory alla Westminster University di Londra, è performance artist e scrittore.

Il Nomorama

Può mai esserci spazio senza legge, o legge senza spazio? Lo spazio senza legge può essere solo questo feticcio di calma assoluta, l’assurdo di una città santa della giustizia (che, dal punto di vista teologico, è la società nel suo insieme), che fluttua perennemente in uno spazio post-conflitto in cui tutto è luce e perdono. Allo stesso modo, una legge senza spazio è una legge senza materialità, un altro feticcio (questa volta del pensiero giuridico) che considera la legge un universale. Ma che genere di universale? È una cosa? Un soffio vitale? Una volontà divina? Un atto di violenza? La legge è sempre fondata nello spazio, incarnata, materialmente presente. La legge come universale astratto, slegata dalle costrizioni della materia, dei corpi e dello spazio è una delle illusioni a cui la legge stessa (e alcune frange della teoria giuridica) tiene molto. La legge come controllo è necessariamente materiale (e cioè spaziotemporale e corporea), poiché è solo grazie alla sua corporeità che la legge può esercitare la sua forza. La legge proviene proprio da coloro che sono controllati, dai loro corpi fisici e dai corridoi che attraversano, come ci ha insegnato l’opera di Foucault e tutta la successiva teoria postcoloniale. Non si parla qui soltanto di controllo biopolitico, dal momento che è in gioco la natura materiale della legge stessa: solo dall’interno della materia la legge può esercitare il suo controllo. Non c’è altro modo: la “città giusta” di cui parla Susan Fainstein è un concetto teologico agostiniano che non si può adattare a niente di meno della divinità. E il rischio, ovviamente, è che questo concetto venga regolarmente cooptato da certa demagogia spicciola.

Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos
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