Andrea Di Giampaolo

Andrea Di Giampaolo ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Human Sciences presso l’Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara, perfezionando i suoi studi in Germania, presso la «Eberhard Karls Universität» di Tübingen. La sua ricerca si concentra sul pensiero politico di Niccolò Cusano, con particolare riferimento ai temi della riforma e del dialogo interreligioso. In relazione a queste tematiche ha pubblicato i saggi Niccolò Cusano e l’Islam («Il Pensiero» 59, 2020), Cittadini mercanti e usurai infami. Niccolò Cusano e gli ebrei («Storica» 79, 2021), e il volume I volti dell’altro. Filosofia e politica in Niccolò Cusano (Münster 2023). Ha collaborato, infine, alla traduzione italiana dei Sermoni cusaniani per la casa editrice Bompiani.

«Tutti i concili sono concili di riforma». Questa idea che Niccolò Cusano ha espresso nel De concordantia catholica affonda le sue radici nella storia della Chiesa medievale. Nel corso del Medioevo, infatti, il dovere della riforma fu spesso attribuito ai concili. A partire dal secolo XI, quando il papato iniziò ad avocare a sé il compito della riforma della Chiesa, intese portarlo avanti proprio attraverso la celebrazione di sinodi presieduti da lui stesso o da un suo legato. In corrispondenza dei concili generali del XIII secolo, non mancò perciò l’esortazione alla riforma da parte dei pontefici. In occasione del Lateranense IV (1215), Innocenzo III convocò i vescovi «per estirpare i vizi e piantare le virtù, correggere gli eccessi e riformare i costumi, eliminare le eresie e consolidare la fede, sopire le discordie e stabilire la pace […]», inserendo, quindi, quello della riforma tra i compiti principali del concilio. Un appello analogo lo fece Gregorio X per il Lionese II (1274), esortando i prelati a investigare attentamente e annotare fedelmente tutto ciò che richiedeva «la lima della correzione e della riforma», per portarlo all’attenzione del concilio.

L’idea che il concilio generale fosse il luogo privilegiato per l’attuazione delle riforme si affermò in modo ancor più deciso nella pubblicistica del XIV secolo. Nel periodo immediatamente precedente al concilio di Vienne (1311-1312), il vescovo di Mende, Guglielmo Durante il Giovane, compose un trattato intitolato De modo generalis concilii celebrandi, che sottopose poi, in una versione compendiata, al medesimo concilio. La crescita del potere della curia, la prassi beneficiaria e i privilegi di predicazione accordati agli ordini medicanti avevano suscitato il risentimento dei vescovi diocesani. Contro queste istanze che continuavano ad erodere l’autorità e il potere dei vescovi, il vescovo di Mende pretese, nel suo trattato, una correctio in capite et in membris. Si trattava, in questo caso, di un’espressione mutuata dalla riforma monastica del XII secolo che egli trasferì dall’ambito delle chiese locali a quello della Chiesa universale, sottoponendo immediatamente il papa, in quanto caput della Chiesa, alla riforma. Tale riforma non avrebbe dovuto coincidere per Guglielmo con una «limitazione costituzionale» del potere pontificio, ma semplicemente nel corretto uso di tale potere. Un altro aspetto degno di nota è la richiesta da parte dell’autore di una regimazione dei concili generali, i quali avrebbero dovuto essere celebrati ogni dieci anni, al fine di intraprendere puntualmente il compito della riforma. Come avremo modo di vedere in seguito, questi temi saranno al centro dei dibattiti sulla riforma tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, dibattiti nei quali le riflessioni di Guglielmo Durante ebbero un’eco considerevole.

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