Logica del senso, ultimo dei capolavori deleuziani degli anni Sessanta, sembra trarre diligentemente le conseguenze della propria logica paradossale e straniante, vagando come Alice nel bosco di Tulgey Wood, o come il protagonista tipico dei grandi romanzi russi dell’Ottocento, che, uscito di casa per fare qualcosa, dimentica puntualmente di cosa si tratti. La prima serie di paradossi di Logica del senso mette subito in tavola la portata principale del tè pomeridiano di Alice: il divenire puro. Per servirlo, Deleuze ha bisogno di un piatto piano, “superficiale”, uno specchio sulla cui superficie levigata possa scivolare il senso. Ecco dunque venire a galla un nesso fondamentale tra la dimensione del divenire e quella della struttura, tra l’evento e il linguaggio. Per Deleuze, il senso-evento rende conto del rapporto tra parole e cose, senza tuttavia confondersi né con le prime né con le seconde.
In altri termini, il linguaggio ci rende capaci di accedere al registro degli eventi, e infatti: «Il linguaggio è ciò che si dice delle cose». Se «in Carroll tutto ciò che accade, accade nel linguaggio», l’alternativa per il soggetto sarà pertanto tra «mangiare o parlare». La dualità dei corpi e delle proposizioni obbliga a parlare di cibo o a mangiare le parole: da un lato la gaffe, dall’altro la balbuzie; da una parte l’avidità orale, dall’altra l’anoressia. Il senso, per Deleuze, affiora al limite di questa duplice impasse.
L’evento, nel suo rapporto con il linguaggio, è dunque questa “cosa di cui si dice”, o, meglio, ciò che si dice di una cosa. Cosa accade allora ad Alice quando mangia qualcosa, e che cosa ne dice?
“Be’, io lo mangio”, disse Alice, “così se mi fa crescere, arrivo a prendere la chiave; e se mi fa diminuire, potrò strisciare sotto la porta. In un modo o nell’altro riuscirò a entrare nel giardino, perciò non m’importa di quello che potrà accadere!” Ne mangiò un pezzetto e si disse con ansia: “Su o giù? Su o giù?” tenendosi una mano sulla testa per sentire se cresceva o diminuiva; e restò sorpresissima trovando che rimaneva delle stesse dimensioni.
Dobbiamo domandare al linguaggio cosa sia capitato ad Alice. Bisogna andare in cerca del senso di un evento – a caccia dello Snark, a costo di finire spinti in circostanze fuori dalla logica ordinaria, di andare “fuori strada”, «out-of-the-way», o di fare a pugni col buonsenso e col senso comune. Ora, i verbi che descrivono cosa sta accadendo alla bambina sono «crescere» e «diminuire» – nel testo di Carroll, rispettivamente, «grow larger» e «grow smaller», letteralmente “crescere più grande” e “crescere più piccola”. In effetti, nella traduzione perdiamo il senso degli avvenimenti, poiché non cogliamo immediatamente il paradosso di qualcosa che avviene nei due sensi allo stesso tempo. Nell’orizzonte di un presente congelato, nella dimensione statica dell’essere, si può essere solo più grandi o più piccoli. Ma l’atto di crescere non ricade sotto il dominio della stasi, è piuttosto un qualcosa in divenire.
Le cose-in-divenire si sottraggono alla misura a ogni istante, poiché schivano il presente. Pertanto, l’evento deleuziano ha a che fare con un genere di cose peculiari, che sfuggono senza requie alla presa del cronometro, saltando gli ostacoli immobili di un tempo congelato. Alice acquisisce uno statuto ontologico “mutevole”, evenemenziale. In definitiva, alla domanda In quale direzione? la bambina non può rispondere, e a nulla le vale tenersi una mano sulla testa per capire se stia crescendo o rimpicciolendo:
Quando dico “Alice cresce”, voglio dire che diventa più grande di quanto non fosse. Ma voglio anche dire che diventa più piccola di quanto non sia ora. Senza dubbio, non è nello stesso tempo che Alice sia più grande e più piccola. Ma è nello stesso tempo che lo diventa.
Alice non può affermare di essere cresciuta («restò sorpresissima trovando che rimaneva delle stesse dimensioni»), dal momento che l’altezza della bambina va «in su» e «in giù» al contempo:
È proprio dell’essenza del divenire l’andare, lo spingere nei due sensi contemporaneamente: Alice non cresce senza rimpicciolire, e viceversa. Il buon senso è l’affermazione che, in ogni cosa, vi è un senso determinabile; ma il paradosso è l’affermazione dei due sensi nello stesso tempo.
Alice diventa in simultanea qualcosa e il suo contrario. Questa evenienza incommensurabile è senza dubbio terreno fertile per la fioritura dei paradossi, di cui abbondano il Paese delle Meraviglie e il mondo al di là dello Specchio. È già il momento per Deleuze di evocare il convitato di pietra al tè dei matti: si tratta del fantasma di Platone, che si aggira costantemente tra le pagine di Logica del senso, dalla prima serie Sul puro divenire, dove viene presentata la distinzione tra le quantità misurabili e il senza-misura, alla rivisitazione psicoanalitica dell’ontologia platonica, con l’accostamento tra dimensione iperurania e istanza superegoica, fino all’appendice su Simulacro e filosofia antica. È in particolare al concetto di simulacro che rivolgeremo adesso la nostra attenzione.