C’è una parola che dice molto bene che cosa sia e che cosa significhi “abitare” ed è οἰκείω “abito”; οἰκεῖν, “abitare”, è una parola da intendersi sia nel suo valore transitivo sia nel suo valore intransitivo, ma soprattutto transitivo: oἰκείω τήν οἰκία, “abito la casa”. Da questo punto di vista, l’abitare non indica altro che lo stare, il dimorare a casa propria, il sentirsi, dove uno di fatto vive, come a casa propria. Questo significa essenzialmente “abitare”, dove οἰκία precede la separazione tra οἰκία e πόλις perché il sentimento di soddisfazione che ciascuno ha nel momento in cui si riconosce nel luogo in cui abita la propria casa, mostra che la casa di cui si tratta è al tempo stesso οἰκία e πόλις, casa e città.
Proprio perché c’è questo nesso primario, originario, tra l’abitare e la casa, lo stare in casa ha acquisito quel senso di protezione, quel sentirsi al sicuro, quel sentirsi garantito nei beni materiali che uno possiede, ma anche nelle abitudini, nelle consuetudini, nell’ethos che lo caratterizza. Proprio perché c’è questo nesso tra οἰκέω e οἰκία è stato possibile, come forse non poteva non avvenire, che questo abitare diventasse, come hanno detto i latini, habitare, habitus, “assumere un abito” che è qualcosa di più di una consuetudine, è una virtù, è un modo di essere, di rapportarsi al mondo. Non a caso Tucidide, nella descrizione della peste di Atene, aveva potuto mostrare come lo scioglimento e la rottura dei legami familiari, che un evento come la peste comporta, implicano anche il collasso della città, il collasso dell’οἰκία: viene meno l’abitare, viene meno al tempo stesso la casa, e la casa è casa ed è anche πόλις. La fine dell’abitare comporta la fine della città e della casa. Naturalmente è vero anche il contrario: se lo scioglimento dei legami familiari, che costituiscono l’habitus dell’abitare, comporta la fine della città, la fine della città implica viceversa la fine della casa o meglio la distruzione della casa. Ebbene, la fine della casa comporta la fine dell’abitare; ancora una volta città e casa, πόλις e οἰκία, sono la stessa cosa: la distruzione della casa e della città comporta il collasso di tutti i legami sociali che sono costitutivi dell’abitare. La città diventa inabitabile se non è quello che la città deve essere; la casa è inabitabile se non è quella che deve essere.
Il problema della casa è quello che incontriamo in Occidente molti secoli dopo come presupposto dell’abitare e che incontriamo specialmente a Firenze negli anni che vanno dalla morte di Arnolfo di Cambio alla conclusione dell’opera di Filippo Brunelleschi, la cupola del Duomo di Firenze. Si tratta dell’operazione nota come il “voltar la volta”. In quegli anni – dal 1310, morte di Arnolfo, al 1436 conclusione dell’opus magnum della cupola – viene alla luce, come mai prima di allora, il problema del principio a partire dal quale una città, una casa sono la base e il fondamento dell’abitare: il problema diviene insomma quello dell’abitabilità e, in questi termini, lo troviamo in quegli anni in tutti i protocolli e in tutti i verbali delle riunioni che i priori e i consoli dell’Arte della Lana, a distanza di qualche anno l’una dall’altra, avevano fatte per risolvere il problema del “voltar la volta”, del compimento dell’opera della cupola, consapevoli che in tale problema stava il principio, la ragione per cui si possa parlare di abitabilità. La storia e la questione erano piuttosto semplici: è ovvio che una casa che non ha il tetto, una casa con un tetto sfondato, con un tetto che ha un orrendo sbrego sul nulla, sul coelum – un cielo vuoto, un cielo che non si riesce a trasformare in cupola – porta ad affrontare il problema dell’abitabilità. Ancora oggi, noi ragioniamo in termini di abitabilità, che non sono esattamente i termini dei Greci, i quali semmai pensavano all’incontrario, ossia pensavano prima l’abitare e poi la città. Qui invece vengono prima la città e la casa perché senza città e senza casa non è possibile sentirsi a casa propria, non è possibile abitare in modo degno. Ancora oggi noi diamo per scontato che il problema stia in questi termini: abbiamo infatti tanti paradigmi dell’abitare e ciascuno di essi porta alla luce il problema della “abitabilità”, dell’abitabilità della città, intesa come la cosa che può restituire al cittadino il suo posto nel mondo e collocarlo dove egli possa sentirsi tale: ecco, questo è precisamente il problema che troviamo nei protocolli, nei verbali, nelle relazioni delle assemblee dei priori e dei consoli dell’Arte della Lana preposti al lavoro di “voltar la volta”. Lo sconcerto di fronte alla morte di Arnolfo di Cambio costringe a porsi la domanda: la casa dei fiorentini, cioè la cattedrale, è sfondata e allora come si fa a vivere? Come si può abitare? Come possiamo sentirci a casa nostra se la casa nostra non esiste e non solo non esiste, ma nessuno sa come farla esistere? Dunque, il problema tecnico di “come fare a voltar la volta”, di come coprire questo enorme spazio diventa tutt’uno col problema diciamo pure filosofico del senso dell’abitare. Ed è in questa prospettiva che lo affronta Brunelleschi: come abitare l’inabitabile, come rendere l’inabitabile abitato e quindi come restituire l’abitazione ai Fiorentini.
Per inciso, ricordo che la cupola, e prima ancora la grande immensa navata di Santa Maria Novella, era stata pensata così grande proprio perché doveva essere la casa dei fiorentini e contenerli tutti, cioè contenere i ventimila capifamiglia di cui erano formate le assemblee della città. Ma alla morte di Arnolfo di Cambio succede un fatto sconcertante: viene deciso di sfondare la navata a meridione e allargare smisuratamente la chiesa di Santa Reparata – che già da allora incominciava a chiamarsi, con un decreto degli stessi priori, Santa Maria del Fiore – rendendola di un terzo più grande. Di conseguenza, la costruzione della cupola, che ancora non c’era ma che già era stata progettata da Arnolfo, come poteva fare un capomastro di scuola medievale e non come avrebbe progettato un architetto del Rinascimento, presenta un enorme problema che non è soltanto tecnico ma che riguarda il senso stesso dell’abitare.
Come affronta Brunelleschi questo problema? Fin dalle prime assemblee alle quali Brunelleschi partecipa – essendo nato nel 1377, possiamo immaginare che, poco più che ragazzo, abbia partecipato all’assemblea in cui fu finalmente deciso di sfondare la parete –, la sua reazione è quella di chi sa come fare. Egli sapeva non solo tecnicamente come risolvere il problema della copertura, del “voltar la volta”, ma sapeva anche qual era il principio a partire dal quale quel problema tecnico si sarebbe potuto risolvere: l’infinito. Ma non l’infinito dei Greci e cioè un concetto puramente negativo; non l’infinito anassimandreo – “là da dove veniamo, là torneremo” –, non l’infinito come non essere, come concetto paradossale se non contradditorio. E come concetto paradossale e contradittorio i greci lo usavano e contrario, in negativo, pensando l’infinito precisamente come ciò che non è mai, concependo l’infinito attuale come contraddizione, quindi come qualcosa che non esiste, e l’infinito inattuale, ciò che non è mai, ciò che è sempre di là da venire, l’infinito in progress, come realtà puramente negativa, come simulazione, come ipotesi – l’ipotesi appunto di Anassimandro “dal nulla al nulla” – che serve soltanto non per dire ciò che è ma che dire ciò che non è. Brunelleschi non ragiona così. Brunelleschi, fin dalle sue discussioni con i matematici, con Donatello, con Lorenzo Ghiberti – discussioni di cui purtroppo c’è una traccia così esigua che si può procedere solo per movimenti incerti, supposizioni tutte da provare –, pensa all’infinito come infinito attuale, come qualche cosa che c’è, che è lì e che, soltanto nel momento in cui venga indicato, può servire come principio a partire dal quale riconfigurare la realtà tutta intera e afferrare la “realtà” – uso questo termine forse non brunelleschiano, forse più hegeliano che brunelleschiano ma di questo si tratta –, concepirla per quello che essa è veramente: infinito attuale.
Per dimostrare che l’infinito attuale non è un paradosso e non è neppure una contraddizione ma è una cosa assolutamente certa ed è il principio da cui partire, Brunelleschi compie, intorno al 1405-1406, il famoso esperimento dell’arengario sulla scalinata di Santa Maria del Fiore. Con questo esperimento Brunelleschi dimostra – a suoi occhi si tratta di una vera e propria dimostrazione – l’esistenza dell’infinito attuale, l’esistenza dell’infinito reale. L’infinito è il punto di convergenza dove i raggi che si dipartono dallo sguardo convergono ed è il punto da cui i raggi ritornano sullo sguardo che li coglie, che li rispecchia. Ebbene una volta trovato quel punto, è possibile riconfigurare la realtà quale essa è realmente, quale essa è nella sua verità. E quindi, se questo punto esiste – e Brunelleschi ha indicato il luogo in cui si trova, con il suo esperimento –, se esiste nello spazio e nel tempo reali, se esiste nell’universo reale, questo punto è reale; e se l’universo reale io posso riconfigurarlo, rappresentarlo, afferrarlo, concepirlo qual è veramente a partire da quel punto, allora l’infinito è reale. Questo è lo scandalo della prospettiva di Brunelleschi. Credo che pochi abbiano capito allora, non certamente Ghiberti con cui Brunelleschi ha collaborato e con cui ha continuato a collaborare sebbene non si siano mai compresi.
Fu Leon Battista Alberti, invece, a capire qual era la posta in gioco con l’infinito e la prospettiva. Alberti considerava Brunelleschi il suo maestro: il De Pictura ne fa fede. Vero è che, in quell’opera, la prima edizione viene dedicata al Duca di Mantova, la seconda a Brunelleschi, ma non sappiamo esattamente se Brunelleschi l’abbia avuta. Nella dedica Alberti riconosce a Brunelleschi di essere l’inventore della prospettiva. Ma il fatto è che Alberti aveva capito che la prospettiva di Brunelleschi è tutta un’altra cosa: è precisamente fondata sull’infinito, sull’infinito reale, sul fatto che l’infinito, dove convergono i raggi e da cui raggi si dipartono, è il punto, è la X a partire dalla quale l’intero universo, in fieri, mai compiuto ma infinitamente compientesi, diciamo così, si dà a noi e si lascia conoscere e si lascia abitare, perché noi siamo abitatori dell’infinito. Per l’Alberti questa posizione è uno sproposito inaccettabile. L’Alberti – e qui è molto importante tenere presente l’elemento non ideologico, l’elemento religioso, cioè il criptopaganesimo dell’Alberti e il cristianesimo del Brunelleschi – pensa l’infinito come lo pensavano i Greci, come una mera simulazione di senso – come una proiezione simulata e finta avrebbe detto poi Vico – a partire dalla quale il mondo può essere sì riconfigurato di volta in volta dal punto di vista di colui che lo guarda, di colui che abita il mondo, ma sempre in modo relativo, secondo questo punto di vista individuale. A questo proposito si è parlato del nichilismo albertiano, sebbene il termine sia certamente improprio. La concezione della prospettiva dell’Alberti è certamente nichilistica perché è relativistica, perché è una pura simulazione, una finzione, una proiezione di ciò che il soggetto vede ma, appunto, in modo puramente illusionistico. L’Alberti riconosce a Brunelleschi d’essere il suo maestro e tuttavia rompe radicalmente con lui e dice esattamente il contrario, concepisce la prospettiva in modo antitetico. Per Brunelleschi l’infinito è la realtà e il soggetto è a pieno titolo abitatore dell’infinito: noi siamo abitatori dell’infinito; per l’Alberti la prospettiva, la stessa prospettiva che lui ascrive a Brunelleschi, ci insegna il contrario: la prospettiva ci dice che è tutto illusione, tutto è relativo a questo gioco di sguardi che fa di ciascuno di noi un soggetto finito nel finito, dove di infinito c’è soltanto l’infinito gioco delle prospettive; infinito vuol dire che nessuna prospettiva è vera, che tutte sono illusione. A questo punto, quella grande amicizia, che forse non era mai stata una vera e propria amicizia, si rompe. I due si accorgono di pensarla in modo contrario. Alberti, con il suo paganesimo, il suo larvato cristianesimo puramente di facciata, quel cristianesimo che rimprovera a Brunelleschi, rivela che cosa sia per lui la prospettiva, che cosa sia per lui l’infinito, in quel libro mai abbastanza studiato e letto che è il Momus. Nel Momus abbiamo a che fare con un prospettivismo relativistico e nichilistico; con un soggetto, questo Momus, che pratica la più sconcertante e anche drammatica dissoluzione di ogni idea di verità, di ogni idea di realtà. Chi è il Momus? Lo ricorderete: è questo strano figuro, un cialtrone sostanzialmente, anzi il principe dei cialtroni, come a un certo punto viene definito; è una strana figura, mezzo dio e mezzo uomo, un demone, ma uno dei peggiori. Momo spiega agli dèi che gli uomini sono delle marionette nelle loro mani; che visti da lassù gli uomini sono men che niente e quindi li trattino come meritano di essere trattati, come dei pupazzi, degli attorucoli, personaggi di una commedia senza capo né coda che fanno ridere giusto quel tanto che fanno ridere. Inizialmente gli dèi lo stanno ad ascoltare, poi si stancano e lo cacciano in terra. E che cosa dice Momo ai terreni? Esattamente il contrario: gli dèi sono delle vostre invenzioni e il potere enorme che hanno è puramente fittizio; hanno il potere di farvi paura, di tenervi in pugno semplicemente perché voi date loro questo potere, perché credete a loro. Gli uomini, secondo Momo, proiettano sugli dèi tutto ciò che non sono e che vorrebbero essere. Nasce da qui il prospettivismo nichilistico che fa di Momus davvero, come qualcuno ha detto, il manifesto di quel nichilismo di cui solo molto più tardi si sarebbe vista l’evoluzione e la manifestazione.
Brunelleschi e Alberti non si capiscono. Anzi, probabilmente arrivano a una rottura di cui poco si sa. Ma l’oggetto del contendere era precisamente questo: non la tecnica attraverso cui fosse possibile voltar la volta, ma l’abitare, il senso dell’abitare. E la soluzione brunelleschiana al problema è partire dall’infinito.
La prospettiva è scienza dell’infinito per Brunelleschi mentre per Alberti è scienza del finito, anzi, di quel finito così finitistico e così relativistico e così nichilistico da portare a un’idea di vivere, di abitare, che è nichilistica, finitistica, relativistica: l’uomo si deve rendere conto che in terra vive sognando, che la vita è sogno. Di lì a poco irromperanno Shakespeare e poi Calderòn, ma viene già tutto da lì, da quel dibattito, dall’Alberti. La vita è sogno, la vita è illusione, la vita è prospettiva sì, ma prospettiva fondata sul soggettivismo del soggetto. Abitare allora che cosa significa? Significa sognare sapendo di sognare. Io non so se Nietzsche, che pure conosceva l’Alberti, abbia preso da lui questa espressione che gli piaceva così tanto, “sognare, sapendo di sognare”, per significare lo stare al mondo. Ecco questa è l’idea dell’Alberti, questa è la sua idea dell’abitare il finito. Ma l’idea dell’abitare l’infinito propria del Brunelleschi apre in un’altra dimensione.
In conclusione, potremmo chiederci: ma noi che cosa abitiamo? Abitiamo il finito o abitiamo l’infinito? La risposta sembrerebbe ovvia: ma noi siamo figli di quel nichilismo, relativismo, prospettivismo che è il nostro mondo. Però, c’è stato Cantor che l’infinito lo ha dimostrato; c’è Einstein che dice il tempo rallenta via via che si avvicina all’eterno, all’infinito, e lo spazio si incurva via via che estendendosi infinitamente non può che incurvarsi: questo tempo e questo spazio stanno nel segno dell’infinito. Insomma, una certa consapevolezza della posta in gioco possiamo acquisirla partendo precisamente da quel dibattito, quello scontro di titani che è stato lo scontro tra Brunelleschi e Alberti.